sabato 14 aprile 2012

Argentina 1921: la mattanza degli ebrei

Federico Grote era un sacerdote tedesco; nel 1892 fondo' i Circoli dell'Operaio Cattolico sulla base dell' esperienza della sindacalizzazione cattolica tedesca " al fine di difendere e promuovere il benessere materiale e spirituale della classe operaia, in netto contrasto con la propaganda del socialismo che con promesse ingannevoli, conduce il lavoratore alla sua rovina temporale ed eterna ... ", inaugurando precocemente la pratica della Chiesa cattolica di Argentina nella questione sociale.
I Circoli nel 1912 contavano 77 centri con 22,930 membri iscritti in tutto il paese. Non costituivano un sindacato in senso stretto, a causa dell'insufficiente numero di cattolici iscritti: impossibile raggrupparli per categorie. Presero quindi la forma di "associazione mutuale".  L'azione sociale si rivolse in tre direzioni: la domanda di una legislazione del lavoro, lo sviluppo di iniziative che  si facessero carico nell'immediato delle esigenze dei lavoratori e l'azione propagandistica per contrastare la crescente influenza delle correnti rivoluzionarie.

Fu un chiaro esponente del cattolicesimo sociale. Le gerarchie della Chiesa videro nei Circoli un ottimo veicolo per sensibilizzare grandi auditorium, mettendo in guardia dalle minacce rappresentate dal pericolo del bolscevismo nel mondo cristiano. Nel 1918 furono espressamente invitati i membri dei Gruppi di Lavoro a partecipare attivamente alla crociata antimaximalista e sempre più anti-semita per mezzo di conferenze di strada. Il loro intervento, come oratori o semplici ascoltatori entusiasti, era avvertire del pericolo che  incombeva sull' Argentina, dove "si vedono bandiere(...) una nera e l'altra di un rosso osceno, per le strade di questa città cosmopolita; esse (sono) gli stracci della ribellione la vergogna, sporche di sangue e fatte d'odio, innalzate e seguite dagli emarginati e dalla feccia. "


Il principale e più noto esponente del movimento fu il sacerdote Dionisio Napal. Fu anche un provocatore. Amava esporre la sua predicazione antiebraica nel cuore dei quartieri con alta percentuale di popolazione ebraica.
L'8 dicembre 1918 pronunciò un discorso che assunse significato in ambito cattolico. Tra gli altri argomenti, parlo' del  "fattore ebraico nei movimenti rivoluzionari del mondo." Identifico' la Rivoluzione d'ottobre con un complotto ebraico. Non era molto originale in questo. L'avevano già fatto i gruppi russi antisemiti, legati al regime zarista e integrati nell'Esercito Bianco che combatteva contro lo Stato debole e incipiente dei Soviet, provocando , nei territori sotto il loro controllo - in particolare in Ucraina, uccisioni di massa degli ebrei. Il mito si diffuse rapidamente in favore di un mondo in guerra che non assorbiva razionalmente i cambiamenti che si verificano ogni giorno.


La tesi del "complotto ebraico" fu accettata dai circoli conservatori inglesi che guardavano a Lenin (almeno fino al momento dell'armistizio che pose fine alla prima guerra mondiale) come a un avventuroso ebreo-tedesco,al soldo del Kaiser, ed al Soviet di Pietroburgo come un ricettacolo internazionale di ebrei, comprati e diretti dallo Stato Maggiore tedesco. Tuttavia, questa caratterizzazione, rozzamente antisemita, del carattere dei rivoluzionari sovietici non fu assunta dal Vaticano fino al 1920. Si può dedurre quindi che Napal, o era a conoscenza delle versioni che circolavano e funzionavano in Europa, e le utilizzo' per riproporre la perfidia degli ebrei, oppure si basava semplicemente sulla sua carica anti semita, senza curarsi di produrre alcuna prova per quel che predicava.

Al di là delle fonti da cui nutri' le sua certezze, favori', in vasti settori della borghesia, la convinzione che l'Ebreo, in quanto tale, era il responsabile della crescente inquietudine.
Oltre che provocatore, Napal era vigliacco miserabile. Le sue conferenze pubbliche nei quartieri ebraici e operai erano protette da una guardia di polizia e sicari. Negli ultimi giorni del 1918 aggiunse alle altre accuse rivolte agli ebrei quella di essere traditori e traditori, e defini' il socialismo come un handicap ebraico.

Allarmata, la stampa israelita argentina denuncio', in castigliano e in Yiddish, l'azione clericale.  Dalla Presse, "i sacerdoti cominciarono a Corrientes e Junin. Poi continuarono con le loro prediche  contro i socialisti e gli ebrei, con l'aiuto della polizia, in tutta Buenos Aires e la periferia. Domenica scorsa hanno organizzato una conferenza simile in Saenz e Esquiú Avenue, circondati dalla polizia e scortati da banditi locali, che erano armati di aste di acciaio. Dopo il rally c'è stata  una dimostrazione. A Caseros y Rioja  il prete Napal ha pronunciato un discorso oscuro e aggressivo ".
Tale discorso, oscuro e aggressivo, non era esclusivo di Napal . La figura del sacerdote era solo la punta emergente della situazione che abbiamo brevemente descritta. La somma di queste tensioni rafforzarono, alla fine del 1918, la sensazione di "Grande Paura" nella borghesia dell'Argentina. In molti settori di questa vasta classe sociale, era diventata inevitabile convinzione l'esistenza di una cospirazione. Diversi elementi interagirono tra di loro e la potenziarono: il clima di paura, voci su eventi inesistenti, che pero' spacciati per  reali rafforzarono il panico di coloro che si sentivano minacciati nei loro interessi e nelle persone e aumentarono la convinzione che solo una repressione esemplare avrebbe potuto porre fine al  pericolo.

Tutto questo influenzo' gli eventi del primo gennaio 1919. Cio' che accadde allora, al di fuori dei limiti della "repressione legale dello Stato",  non puo' essere misurato in termini scindibili. Non ci fu la repressione illegale diretta, distintamente, contro i lavoratori -in quanto tali - per dinamica sociale, e la persecuzione degli ebrei -anch'essi in quanto tali - prodotta da una logica razzista ma autonoma dall'altra.  Al contrario, come ben sintetizza Lvovich, entrambi furono il risultato della "Grande Paura" che invase la borghesia, che credette di vedere nella repressione selvaggia e illegale, l'unico modo per terminare una "cospirazione", interpretata da un nemico dalle diverse facce .
(....)

Florencia Pagni y Fernando Cesaretti.

Escuela de Historia. Universidad Nacional de Rosario

grupo_efefe@yahoo.com.ar
http://grupoefefe.blogspot.com
http://grupoefefe.blogspot.com/2008/10/enero-rojo-la-semana-trgica-y-el-pogrom.html

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....80 morti, negozi bruciati, giovani presi a bastonate, anziani a cui fu tagliata la barba, ragazze violentate, donne umiliate. Quei giorni sono ricordati come "la Settimana Tragica". Ma la ferita più profonda che segna il quartiere è recente: l'attentato del 18 luglio 1994 alla sede dell'Amia, l'Associacion mutual israelita argentina, il principale ente di assistenza della comunità. Questa volta i morti furono 85 e 300 i feriti: impiegati dell'ufficio, gente in coda per cercare lavoro, passanti. Fu il più sanguinoso della storia argentina, preceduto da un'altra strage: nel 1992 scoppiò una bomba all'ambasciata israeliana di Buenos Aires causando 29 morti e 240 feriti. I due attentati hanno lasciato una paura che è palpabile ancora oggi davanti alle sinagoghe, al Club sportivo, alle scuole e alle associazioni ebraiche. Blocchi di cemento sui marciapiedi impediscono alle auto di parcheggiare o di avvicinarsi troppo agli edifici. Guardiani con l'auricolare e la pistola sotto la giacca fermano ogni visitatore sconosciuto. Senza autorizzazione è vietato l'ingresso. È proibito persino fotografare: uno scatto davanti alla sinagoga può costare un minuzioso interrogatorio al commissariato di polizia. Molti ricordano il giorno dell'attentato all'Amia: "Arrivai di corsa pochi minuti dopo l'esplosione", racconta un venditore di stoffe. "Il caos era totale: la gente correva, la luce era saltata, dai tubi usciva acqua, macerie dappertutto. E al posto del palazzo dell'Amia, c'era soltanto un grande buco". Un barista rievoca il momento dell'esplosione. "Ho ancora nelle orecchie le urla dei feriti. Un uragano di polvere, vetri rotti: come un film, ma era guerra". "Alcuni quotidiani argentini, il giorno dopo, scrissero che fra le vittime c'erano anche passanti "innocenti". Rimasi scioccata: significava forse che noi ebrei ci meritavamo quella strage?". A parlare è Romina Manguel, giornalista di Radio Del Plata, conduttrice di una delle trasmissioni più ascoltate dagli argentini. Sua figlia di pochi mesi si chiama Hania. Un nome ebraico. ""Bello", hanno commentato alcuni amici. Aggiungendo però: "Ma sei sicura che da grande non avrà problemi? Alle feste non la inviteranno a ballare", mi hanno detto. Meglio così, ho risposto. Non voglio che chi ha questi pregiudizi le si avvicini". Romina parla di un antisemitismo celato ma costante, che attraversa la storia argentina. Non è d'accordo il rabbino Daniel Goldman, punto di riferimento degli ebrei argentini più progressisti. "L'antisemitismo di oggi non è un fenomeno disgiunto da altri tipi di razzismo, come quello nei confronti degli immigrati boliviani, peruviani o di chi ha la pelle più scura. Ma la società argentina, evolvendosi, saprà elaborare questi pregiudizi". La comunità soffre molto il fatto che, dopo anni, non siano ancora stati trovati i colpevoli degli attentati all'Amia e all'ambasciata israeliana. I magistrati ritengono che le due bombe siano state messe da Hezbollah con la complicità di funzionari dell'ambasciata iraniana. Ma hanno messo in luce anche collegamenti con le forze di sicurezza argentine e tentativi di depistaggio. "Abbiamo pazienza e memoria", sostiene Jose Adaszko, vicepresidente dell'Amia. "La nostra richiesta di giustizia non è diversa da quella che ripetono le Madri di Plaza de Mayo per i loro figli desaparecidos". Due dolori che si sovrappongono. Tra i 30mila dispersi, circa il 5-10 per cento erano ebrei. "Una percentuale alta, se consideriamo che gli ebrei erano meno dell'1 per cento della popolazione", spiega lo scrittore Marcelo Birmajer. "La polizia li sequestrava per la loro militanza politica, ma nei centri di detenzione venivano torturati più degli altri, insultati in quanto ebrei". Marcelo, 41 anni, riceve i visitatori a piedi scalzi in un piccolo studio ingombro di libri. È la migliore guida per una passeggiata nel Barrio Once. Sul quartiere ha appena scritto un libro che intreccia ricordi d'infanzia, dati storici, leggende urbane. "È il luogo in cui sono nato, dove ho conosciuto gli oggetti, imparato a parlare. Da qui, bambino, sono partito per Israele. Sono tornato pochi mesi dopo perché mia madre aveva nostalgia", racconta. "Il fatto che il quartiere non si trovi su nessuna mappa mi stimola ancora di più a narrarlo, a entrarvi clandestinamente per scoprirne i segreti. L'infanzia all'Once è il conto che custodisco nella banca dell'immaginazione. Qui ci sono ebrei osservanti e laici, c'è l'incrocio del mio popolo con altre culture. Il mistero. C'è sempre un marciapiede maledetto su cui non devi passare, una casa stregata, un cortile dove misteriosamente è comparso un cavallo a mangiare l'erba. Tutto è riapparso nella mia memoria quando, da adulto, ho cominciato a inventare storie a partire da quelle che avevo ascoltato". Oggi però l'identità ebraica del quartiere si è diluita: sono arrivati migliaia di immigrati dall'Asia e da altri Paesi dell'America Latina. "Coreani e boliviani vendono la loro mercanzia in chioschi male illuminati. Allo stesso incrocio, la notte, posso ascoltare suoni di guerre tribali la cui origine mi è sconosciuta: bastoni e grida. Nell'ingresso di un negozio abbandonato alcuni ubriachi dormono accanto ai loro cartoni di vino", scrive Birmajer, che è anche l'autore della sceneggiatura del film El Abrazo Partido del regista argentino Daniel Burman, vincitore nel 2004 del Gran premio della giuria al Festival di Berlino. È ambientato a Once e i protagonisti sono ebrei della classe media, una fascia sociale che ha molto sofferto la crisi economica degli ultimi anni. L'incubo del 2001: fabbriche chiuse, conti in banca bloccati, cortei. Un ricordo bruciante per i commercianti di Once. "Passammo mesi senza vendere nulla", racconta il proprietario di una merceria. "Chi aveva risparmi, li ha spesi. Gli altri andarono a fare la fila alla mensa dei poveri o emigrarono". Nel 2002 molti ebrei argentini partirono per Israele: se ne andarono in 6.500. "Ricordo le file davanti ai templi e istituzioni ebraiche", spiega un barista. "Ti pagavano il viaggio e persino il rinnovo del passaporto. Un rabbino disse che c'erano più probabilità di morire di rapina o di crepacuore in Argentina che in Israele a causa di un attentato. Molti gli credettero". Secondo l'Amia però la maggioranza di quelli che partirono sono già tornati. Uno studio pubblicato dall'associazione traccia il ritratto di una comunità fortemente radicata nel Paese. "Io mi sento molto ebreo e molto argentino", sintetizza un medico. "Non me ne andrò mai". La maggioranza - secondo la ricerca - affolla le sinagoghe solo in occasione delle feste ebraiche. Non si preoccupa troppo di mangiare kasher né che i figli compiano il bar-mitzvà, il rito di passaggio alla vita adulta. "L'identità ebraica qui è più legata alla ritualità che alla religione", commenta il rabbino Daniel Goldman. La comunità non si è schierata nelle ultime elezioni presidenziali. La vittoria trionfante di Cristina Kirchner è stata salutata da molti con soddisfazione, ma anche con quel fondo di diffidenza che ormai fa parte dell'indole degli abitanti di Buenos Aires. "Se si vuole sopravvivere, bisogna abituarsi a cavalcare le difficoltà, a non toccare mai terra", conclude Marcelo. "Sono sempre disposto a imparare un nuovo lavoro, una nuova lingua. È faticoso, ma essere pronti ad affrontare le difficoltà ti rende più forte". Intanto, in strada un religioso guarda il sole che tramonta e corre al Tempio. È tempo di celebrare il Sabato.
Michela Sechi
http://d.repubblica.it/dmemory/2007/12/01/attualita/attualita/109yid576109.html

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