sabato 14 aprile 2012

Sono ebreo!

 

Emanuel Baroz

Come ogni anno in questo triste anniversario riproponiamo la storia di Daniel Pearl, il giornalista statunitense rapito e poi barbaramente ucciso mediante decapitazione (avete letto bene….) da parte di terroristi islamici che ripresero anche la scena con una telecamera ed inviarono poi il macabro video (che vi risparmiamo) alle autorità pakistane. Ricordiamo le ultime parole che questo povero ragazzo fu costretto a dire prima di essere ucciso: “
sono ebreo, mio padre è ebreo, mia madre è ebrea”. Il suo ricordo sia in benedizione.

New York – Un video raccapricciante finito ieri nelle mani della polizia pakistana, e poi dell’ Fbi, mostra il corpo sudicio di sangue e senza vita di un giornalista americano: Daniel Pearl. L’ inviato del Wall Street Journal è stato assassinato dalla banda di integralisti musulmani che lo aveva rapito a Karachi il 23 gennaio. E’ l’ ultimo caduto, dopo Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli e migliaia di altri ufficiali e sottoufficiali del giornalismo mondiale, nella guerra infinita per una informazione onesta, difficile, scomoda.
Trentotto anni, laurea a Stanford, una brillante carriera, moglie francese e bimbo in arrivo, Pearl era da un anno corrispondente del Journal da Bombay. I suoi amici ci raccontano di una personalità «magnetica», capace di afferrare l’ attenzione di tutti gli interlocutori. A gennaio si precipitò in Pakistan per una pista che confidava ai colleghi «avrebbe fatto capire molte cose». Si trattava dei collegamenti tra Richard Reid e Osama Bin Laden, tra il “bombarolo della scarpa” che a dicembre tentò di far esplodere l’ aereo Parigi-Miami e il leader indiscusso (e invisibile) di Al Qaeda.
Ma “Danny” così lo chiamavano gli amici non ha avuto fortuna. Intercettato dalla banda di Ahmed Omar Saeed Sheikh, giovanissimo leader integralista con passaporto britannico, fu rapito il 23 gennaio a Karachi mentre sperava, uscendo da un ristorante, di intervistare lo sceicco Galiani, uno dei leader dell’ integralismo pachistano. Pochi giorni dopo lo fotografarono con una pistola puntata alla tempia e consegnarono l’ immagine alla Storia via email.
Lo umiliarono. Lo ferirono. Lo fecero passare (senza ragione) come agente della Cia e poi del Mossad. Come riscatto pretesero dagli Stati Uniti la liberazione dei detenuti pachistani nelle gabbie di Guantanamo, la base americana nella costa meridionale dell’ isola di Cuba. Una condizione, questa, che nessun presidente americano avrebbe mai accettato. Tanto meno George W. Bush. In compenso la Casa Bianca chiese al generale-dittatore-presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, di fare tutto il possibile per salvarlo. Di qui l’ arresto dello sceicco Galiani, subito rimesso in libertà perché non c’ era alcuna prova contro di lui; poi l’ arresto dello stesso Omar.
«Pearl è vivo», assicurò Omar.Gli permisero di mandare un messaggio in codice ai suoi complici: «Per favore disse con la posta elettronica mandate il paziente dal dottore». La risposta (laconica ed elettronica): «Il paziente è morto». La conferma: il video rossosangue nelle mani dell’ Fbi. Poi l’ annuncio del dipartimento di stato alle dieci e mezza di ieri sera: «L’ assassinio di Daniel Pearl è un oltraggio alla convivenza pacifica. Assieme al Pakistan, faremo di tutto per individuare punire i colpevoli». Marianne, lei, ha deciso di non parlare: «Non concederò interviste», ha fatto dire la moglie di Pearl da un amico di famiglia. Il quale ha letto di fronte ai microfoni delle televisioni californiane il comunicato. «Siamo tristi, le paure più gravi sono diventate realtà: pensavamo che nessuno avrebbe torto un capello a una anima così dolce. L’ assassinio di Danny va al di là di ogni atto razionale. Per noi era un figlio, un fratello, uno zio, un marito e il padre di un bambino che non potrà mai incontrarlo». «Era anche un musicista continua il comunicato della famiglia era uno scrittore, un cantastorie, un architetto di ponti interculturali. Era pieno di sole, di verità, di spirito umoristico, di senso dell’ amicizia. Ci sentiamo vicini agli amici che lo hanno conosciuto e a una umanità che dovrà vivere d’ ora in poi senza di lui».
 
Assunto nel 1990, Pearl aveva lavorato per il Journal da Atlanta, Washington, Londra e Parigi, dove scriveva sul Medio Oriente e dove aveva conosciuto Marianne, una ragazza serena, dai capelli ricci, con cui condivideva gli sconforti professionali e le speranze esistenziali. Insieme si erano trasferiti a Bombay alla fine del 2000. A dispetto della pancia, cresciuta nonostante il sequestro, lei ha fatto di tutto per convincere i rapitori: «Non dovete fargli del male, non vi serve a niente», ripeteva la moglie nelle interviste televisive. «Danny vi serve più vivo che morto», diceva negli appelli.
Ma gli sforzi di Marianne sono stati vani. Dopo quasi un mese di speranze e delusioni, di sforzi e sogni, di fotografie ottimiste e di messaggi ufficiali (compreso quello del presidente pachistano Musharraf: «E’ vivo»), quello di Daniel Pearl è l’ ultimo oltraggio, l’ ultimo insulto al giornalismo internazionale. Suo figlio, ha detto ieri George W. Bush, conoscerà il padre solo per interposta persona.

http://www.focusonisrael.org/2010/02/22/daniel-pearl-terrorismo-islamico-antisemitismo/

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