lunedì 12 agosto 2013

Chi si ricorda di Tel al-Zaatar?




Titolo originale:
ERA LA MATTINA DEL 12 AGOSTO 1976
di Francesco Castelnuovo
2013


Oggi è il 37esimo anniversario della strage di Tel al-Zaatar, una delle stragi di palestinesi più barbare degli ultimi 40 anni, compiuta durante la guerra del Libano, in un campo di rifugiati palestinesi, da parte dei falangisti libanesi filo-siriani con l'appoggio del dittatore siriano Hafez El-Assad (nella foto insieme a Yasser Arafat, in una delle varie immagini della fine degli anni 70 che li ritraggono insieme, guarda un po'...). 
Una strage particolarmente efferata non solo per il numero delle vittime (tra 2000 e 3000 a seconda delle stime), ma perché avvenne dopo che le milizie guidate dal generale Michel Aoun avevano portato allo stremo e alla fame gli occupanti del campo con un assedio durato oltre 6 mesi! La strage di Tel al-Zaatar non viene ricordata quasi mai. Non è come per la strage di Sabra e Shatila, che fu compiuta anch'essa da falangisti libanesi, ma con gli israeliani che avevano chiuso un occhio.

Per la strage di Sabra e Shatila ci sono state in 30 anni:

- reportages di testate internazionali,
- manifestazioni di piazza in mezza Europa (e in Israele)
- commissioni d'inchiesta,
- proteste della Lega Araba,
- richieste di condanna per Ariel Sharon,
- discorsi di fine d'anno di Presidenti della Repubblica Italiana (v. discorso di fine anno di Sandro Pertini il 31 dic 1982),
- canzoni di Eugenio Finardi,
- canzoni dei Nomadi,
- ...e tante altre grida di scandalo che adesso nemmeno ricordo.

Per la strage di Tel al-Zaatar invece no! Tel al-Zaatar non se la ricorda nessuno! Eppure le sue dimensioni in termini di durata e di numero di vittime è pari se non superiore a quelle di Sabra e Shatila. Come mai? È semplice. Non c'erano di mezzo gli israeliani. È come per le tante e tante stragi di palestinesi compiute dai loro "fratelli" arabi. A partire dalla più grande di tutte, quella compiuta nel settembre 1970 (il Settembre nero) da Re Hussein di Giordania (che, chissà come mai, nel suo discorso di veemente protesta per Sabra e Shatila, Sandro Pertini citò come esempio da seguire!). 

E così, tutte le volte che i palestinesi sono stati (o sono tuttora, v. in Siria) uccisi dagli arabi, i cosiddetti "difensori dei diritti umani", "pacifisti" o "filo-palestinesi" che dir si voglia, hanno altro da fare. Fanno come diceva Craxi: vanno al mare. Come quel 12 agosto...




Ada Ascarelli Sereni: storia di una sionista italiana




Ancora negli ultimi mesi della sua vita, quando la incontrai vestita di seta blu a piccoli fiori bianchi nell'albergo per anziani “Nof yerushalaim” fra i mobili italiani con cui aveva sistemato le sue due stanze, Ada Sereni spirava energia e grazia; era dura nei giudizi e dolce nei modi, accurata nel parlare e non dimentica di un aristocratico lieve accento romanesco.

Si sarebbe spenta a 92 anni, nel novembre del 1998; era giunta in Israele nel 1927. La sua è la vicenda di un'eroina prima nascosta e silente all'ombra di Enzo Sereni, suo marito, e poi, dopo la sua tragica morte, di una leader intrepida e avventurosa, un'autentica salvatrice di decine di migliaia di vite e di anime scampate alla Shoah e dirette verso la loro risurrezione in Israele.

Ada Sereni nacque Ascarelli, a Roma, il 20 giugno 1905: la sua era una famiglia ebraica raffinata, colta e benestante. Alla piccola Ada si raccontava del nonno Ariel, che, fornitore di lana del Papa, non aveva mai dovuto sottostare alle restrizioni che serravano gli ebrei di Roma nel ghetto.
Ariel aveva persino una proprietà in via Giulia. La tradizione ebraica era forte anche se laica, il padre di Ada leggeva la Bibbia ai suoi figli e la teneva sempre vicino al suo letto; una volta si era spinto a visitare Gerusalemme arrampicandosi per la strada da Jaffa alla tanto sognata culla degli Ebrei, ma lo stato della città, che anche Stendhal o Mark Twain hanno descritto come rovinoso, lo convinse a non ritentare dal viaggio mai più.

Ada incontrò a scuola il suo grande amore, Enzo Sereni, che era già allora un sionista che mescolava la poesia del sogno del ritorno alla casa antica degli ebrei agli ideali socialisti. Enzo catturò l'anima di Ada e la portò con sé verso gli studi storico filosofici, ma Ada già desiderava imparare cose più pratiche, più effettive: la chimica era la sua materia preferita, e le dette grande soddisfazione, più avanti, poter riprendere gli studi nella direzione da lei prescelta. La coppia si sposò a Roma e presto nacque Hana, la prima figlia.

Enzo Sereni, sionista e partigiano della Brigata Ebraica

Nel luglio 1927, con la bambina piccolissima, Enzo e Anna cominciarono un'avventura entusiasmante e terribile, quella del ritorno in Israele, la cui ricostruzione doveva passare attraverso un'autentica mutazione antropologica che prevedeva il farsi contadino e operaio da una parte, e intellettuale e studioso dall'altra, secondo la tradizionale visione dell'idealismo marxista. Nel congresso sionista di Livorno Enzo aveva detto: «Non ci sarà riscatto per il nostro popolo sino a quando saremo noi stessi a tornare a Eretz Israel per costruirla anche manualmente; il nostro popolo non avrà diritto alla pace fra gli altri popoli finché non si sarà creata una normale struttura proletaria e contadina».

Enzo era sostenuto da una famiglia sionista e antifascista (anche il fratello Emilio che poi diventò un dirigente del Pci a quel tempo lo era); Ada costruiva da sola, nell'amore, nell'abnegazione personale, la sua nuova inusitata identità. Così, sistemati nel paesino di Rehovot, Ada passò il periodo più difficile della sua vita: Enzo andava nel “pardes”, il campo orlato di palme e eucalipti a piantare, irrigare, potare aranci; e lei restava in una casa senza acqua corrente, con la toilette fuori di casa, la bambina piccola. La decisione di passare a vivere in un kibbutz «dove almeno ci saranno i giardini» fu di Ada. Così la famiglia Sereni fondò con un piccolo gruppo di compagni il kibbutz Givat Brenner.

Ai genitori che non avrebbero mai capito in che cosa consisteva la nuova durissima esperienza collettiva, Ada scrisse che avevano comprato una bella fattoria: ma i compagni, i «haverim» dormivano e vivevano sotto le tende, salvo i bambini (nacque nel frattempo anche un'altra piccola Sereni, Hagar) cui i genitori costruirono una capanna col pavimento di terra battuta. «La gioia era stata grande per tutti – raccontava Ada parlando del passaggio al suo kibbutz, Givat Brenner – per l'arabo che aveva venduto un pezzo di terra arida e incolta per l'e norme somma di diecimila sterline [...] per noi 28 giovani pieni di sogni e di entusiasmo per la nuova società che avremmo creata e voluta giusta, lontano dalla ricchezza che corrompe, a contatto con la natura».

Il kibbutz Givat Brenner con le tende e gli alloggi per i bambini in costruzione, 1934 circa

La vita fu durissima anche se la coppia fioriva di idealismo e capacità personali: Ada divenne direttrice della fabbrica Rimon (Melograna) di succhi e conserve; la fama di Enzo si diffuse, egli divenne un leader del movimento kibbutzistico e socialista famoso in tutto l'Yishuv da cui sarebbe nata Israele. Nel kibbutz Givat Brenner presto vi fu una biblioteca, e i rapporti con i villaggi arabi erano in origine di lavoro e di pace. Ma nel 1929 il kibbutz diventò invece, sovente attaccato concentricamente da un rifiuto arabo che si faceva sempre più aspro, un luogo assediato e pericoloso.

Enzo e Ada resistettero insieme agli altri alla vita tanto difficile, mentre nel ‘31 nasceva il terzo figlio, Daniel, che tragicamente sarebbe stato falciato a una parata aerea nel 1954; nel 1933 Enzo fu scelto come inviato (shaliach) del suo movimento socialista proprio nella Germania del potere hitleriano aperta sorto.
Più tardi, la famiglia fu spostata a New York, dove Ada divenne la organizzatrice di una autentica comune di educatori (tutti accompagnati dalla famiglie, tutti nella stessa grande casa) di giovani pionieri. Ordine, garbo, fantasia e puntiglio, anche talvolta in polemica con il temperamento nervoso e appassionato del marito, così tutti ricordano le caratteristiche di Ada.

Nel 1938, dopo le Leggi Razziali, al kibbutz giunse un gruppo di ebrei dall'Italia. Il fiato dell'Olocausto si faceva affannoso su Israele, la tragedia cominciava ad essere nota. Nel 1944 si formò la Brigata Ebraica che combatté in Europa comandata da ufficiali ebrei.

L'Hagana e il Palmach, le due formazioni militari dell'Yishuv, decisero di lanciare alcuni uomini dietro le linee tedesche per prendere contatto con gli ebrei e incitarli a combattere. Enzo Sereni, la cui fama di uomo indispensabile, integro, coraggioso, era ormai un dato di fatto, si offrì di paracadutarsi. Già erano cadute fucilate dai nazisti dopo essersi infiltrate in Europa due giovanissime e oggi mitiche figure, Anna Senesh e Aviva Reich.

Ada ricorda che «quella fu forse l'unica volta in cui dissi a Enzo di non perseguire una sua scelta. Fu irremovibile». Si lanciò sotto mentite spoglie («Samuel Barda») in divisa inglese nella notte fra il 14 e il 15 maggio del 1944 e se ne conosce la tragica sorte da qual che testimonianza personale e alcune carte: catturato, fu portato come prigioniero a Dachau, e poi fu fucilato.

Quando il suo adorato sparisce nel nulla, Ada si arma, oltre che della consueta energia, di un solitario e leonino senso di avventura, lascia tutto e parte alla ricerca di Enzo, convinta che l'incredibile forza della personalità del marito debba aver lasciato tracce indelebili in chiunque abbia avuto la ventura di incontrarlo. E di fatto, troverà sulla sua strada molti prigionieri dei tedeschi scampati che raccontano di un gentiluomo italiano venuto dalla Palestina che fino all'ultimo aveva donato il suo cibo e la sua sapienza con generosità a quanti incontrava.

Ada in Italia viene incaricata, come condizione per proseguire la sua permanenza lontano dal kibbutz, di una sua missione personale: organizzare l'immigrazione clandestina verso le spiagge della Palestina per l'Agenzia Ebraica, in barba alla leggi britanniche che proibiscono agli ebrei di immigrare, secondo il Libro Bianco concepito dall'Inghilterra per sedare lo scontento arabo.

Sono leggi che si dimostrano crudeli oltre misura, dato che gli ebrei che erano riusciti a sopravvivere ai campi di sterminio non avevano altro obiettivo al mondo che quello di approdare a una casa che fosse la loro per sempre, da cui nessuno potesse deportarli per bruciarli vivi. Gli inglesi abbordavano e bloccavano le navi cariche di migliaia di scampati ad Auschwitz, compresi vecchi e bambini, spesso in pessime condizioni di salute, prima che toccassero Haifa o Jaffa, e respingevano gli ebrei verso l'Europa; ci furono affondamenti, morti, feriti, decine di episodi tragici insanguinarono le acque del Mediterraneo.




È famosa la vicenda dell'Exodus, (da cui il famoso film con Paul Newman e Eva Marie Saint in cui Ada è rappresentata) in cui la nave, carica fino allo stremo, fu respinta due volte: ripartita dalla Francia (proveniva dagli Usa) solo grazie a un lungo sciopero della fame fu al suo arrivo in Israele rispedita in alto mare con un autentico assalto militare britannico, con i suoi 4.500 profughi. Il compito di Ada, era innanzitutto acquistare clandestinamente le navi, che variavano dai pescherecci a grandi battelli che potessero contenere, stipati, migliaia di passeggeri; organizzare l'afflusso dei profughi e curare che esse potessero salpare, in genere nottetempo, cariche del necessario (leggi la storia dei ragazzi di Salvino).

Ada fu di un'abilità e di un'energia eroica, finì anche in carcere, percorse la penisola con mezzi di fortuna e di nascosto incontrando mediatori marittimi, capi del Mossad e dell'immigrazione, soffrì con i profughi attese, rinunce, delusioni, gioì di immense vittorie morali, riuscì a risolvere con le autorità italiane situazioni che apparivano irrisolvibili, e trovò, come racconta nel suo libro I clandestini del mare edito da Mursia, una sostanziale simpatia per gli scampati da Auschwitz.

A La Spezia nel febbraio del ‘46 la nave Fede fu prima fermata dai carabinieri in assetto di guerra cui erano state fornite false informazioni sui passeggeri a scopo di boicottaggio. Quando, scesi dalla nave con l'intervento di Ada i mille passeggeri mostrarono tutti quanti il numero tatuato sul braccio sotto le armi puntate, i carabinieri italiani girarono le armi per eventualmente difendere la nave da attacchi di male intenzionati, e lasciarla partire.

Nel ‘47 Ada decise di restare ancora in Italia come capo dell'organizzazione per l'assistenza che seguitava ad avviare i profughi in Israele. Si calcola che ne abbia messi sulle sue navi circa 28mila. Più avanti, tornata in Israele, le sue attività di aiuto alla popolazione civile, e in particolare a quella palestinese di Gaza dove per incarico del governo cercò di organizzare servizi dopo il 1967, non si fermarono mai. Ma il suo compito e il significato che Ada stessa gli attribuiva si compendiano nella conclusione del suo libro: «Dalla partenza del piccolo Dallin (una imbarcazione ndr.), nell'agosto del 1945 al maggio del 1948, circa 75mila persone erano partite illegalmente dall'Europa e circa 25mila dall'Italia. La notte del 14 maggio (1948 ndr.) partì dal «campo climatico» di Formia l'ultima nave di quella flotta senza bandiera che per tre anni aveva solcato le acque del Mediterraneo.

Partì nel modo consueto, ma i libri di bordo non vennero nascosti, né venne cambiato il nome della nave, perché in quel medesimo giorno un'assemblea memorabile di leader israeliani aveva proclamato la ricostituzione dello Stato d'Israele». Certo Ada, come mi disse durante il nostro incontro, si struggeva nel pensare alla gioia che questo epocale evento avrebbe dato anche ad Enzo.

Fiamma Nirenstein



Comunisti italiani e sionismo

Palmiro Togliatti ad un convegno nel 1960


La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l’esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio - pochi giorni prima del conflitto - si tenne a Roma, al portico d’Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l’architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l’aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l’indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c’è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull’Unione Sovietica affinché sia l’Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l’Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l’intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.

Alberto Jacoviello

Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell’«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un’esplosione d’ira, aveva distrutto le matrici pronte per le rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell’allora direttore dell’«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell’egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell’animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati di essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l’uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimmo) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all’aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un’idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».

Gamal Abdel Nasser


Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull’altare dell’ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l’auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all’accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero».

Arturo Schwarz

A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell’ottobre dello stesso 1946, dopo l’attentato dell’Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all’ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono - è scritto in rapporti di due anni dopo - il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l’influenza inglese in quella regione». Anche il Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all’epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da DeriveApprodi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C’era, mordeva il reale quest’utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l’emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente - a nome del Pci - il riconoscimento.

Una fabbrica di confettura d'arance attiva nei pressi di Tel Aviv nel 1940

Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l’organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l’eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d’Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l’ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l’istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l’ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l’ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l’unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi».

Rudolf Slansky durante il processo

Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell’Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l’avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all’ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell’Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l’Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d’Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all’estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito.

Giovani pionieri ebrei progettano l'insediamento del kibbutz a Dovrat in Galilea nel 1946

Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell’agosto del ’53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l’ Internazionale e l’inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l’ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d’oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull’Idra sovietica all’attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un’occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l’Urss! W lo Stato di Israele! W l’amicizia eterna tra Israele e l’Urss».


Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l’Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l’Unità» all’epoca difendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l’intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l’ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l’indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi dell’Unione Sovietica. È da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri».
Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del ’57 sull’«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all’epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l’Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L’eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l’8 aprile); stabilì poi un paragone tra l’operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell’epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti.


Le forze armate israeliane in azione nel deserto durante la guerra dei Sei giorni

Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere - da sinistra - Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull’«Avanti!» un esponente dell’ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell’«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L’Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari - pur con una grande attenzione all’uso delle parole - decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani.

Stesso genere di argomentazione - ma a parti invertite - fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L’unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» - ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella - si schierarono pressoché all’unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell’Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni.

Pier Paolo Pasolini mentre intervista alcuni abitanti dei kibbutz israeliani

Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l'unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall'Urss, e molti gruppi nati dopo il '68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Bettino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un'automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest'ultima e l'antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell'antigiudaismo cattolico».



Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana - eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l'intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d'area inclusi - andarono sempre più peggiorando. Le linee dell'esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all'epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l'altra, un "compagno" toscano prorompe in un'invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e ... sorpresa, mi ritrovo nell'isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell'attentato di Settembre nero all'Olimpiade di Monaco (1972) la solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all'epoca militante del Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «famiglia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l'evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l'attacco dell'Egitto «l'Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel '67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci - in privato, però - cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l'allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all'inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l'impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più».

Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, nel 1977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l'assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall'antisionismo all'antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant'anni dopo la gloriosa rivoluzione d'Ottobre».

Bruno Zevi, ex militante azionista, che attaccò il Pci in nome della difesa d’Israele

Discorso a parte merita poi un'altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell'ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento... i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv.

Il giorno dell'attentato alla Sinagoga di Roma in cui fu assassinato Stefano Gay Tachè, di due anni

Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell'intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l'omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento - fino ad allora quasi nascosto - di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l'appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte - quanto meno chi fino a poco prima si era prestato - di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c'è da accusare Gerusalemme.

Un ruolo fondamentale nell'accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Fassino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l'eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un'intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».

Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell'atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c'è da attaccare Israele è ben lungi dall'essere scomparso del tutto.

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Titolo originale: "E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista. La svolta con l’attentato alla sinagoga di Roma"
di Paolo Mieli
15 maggio 2012

venerdì 9 agosto 2013

Prestami il tuo braccio!



4 Aprile 2013
Quando la mistificazione non si fa scrupolo di utilizzare morti per attizzare l’odio. Oggi il web è stato inondato da una foto spacciata come quella di Abu Maysara Hamdiya, un prigioniero palestinese, morto questa settimana in un carcere israeliano, la morte del quale è stata presa a pretesto per scatenare una nuova ondata di violenze nella West Bank.
Hamdiya soffriva di cancro, e l’accusa è che egli non abbia ricevuto le cure mediche di cui aveva bisogno. La foto lo mostra ammanettato a un letto di ospedale e insinua che gli fossero stati inflitti trattamenti crudeli, inumani durante la sua pena detentiva.
Il volto del sessantacinquenne prigioniero Abu Maysara Hamdiya,
sovrapposto ad un braccio ammanettato decisamente più giovane


Il portavoce israeliano del Prison Service, Sivan Weizman, ha spiegato che  erano state prese tutte le precauzioni necessarie per la salute di Abu Hamdiya, tra le quali il trasferimento in un carcere più vicino a strutture ospedaliere. Ricordiamo che Hamdiya in effetti è morto nell’ospedale di Bersheeva e non in carcere. Hamdiyah scontava l’ergastolo per omicidio, appartenenza a Hamas e possesso di armi.  Nella didascalia alla foto sopra si legge: ”prigioniero, comandante e jihadista”, insieme a una foto di Abu Maysara Hamdiya. L’immagine implica che Abu Hamdiya fosse ammanettato ad un letto d’ospedale.



 In realtà, il braccio nella foto sopra è una porzione ritagliata di una foto scattata in Siria, di un ribelle in ospedale. La foto è stata originariamente pubblicata l’8 dicembre 2012.



Lady Ashton, Israele e il suo lievissimo conflitto di interessi...




Nonostante il nome ammiccante, non si tratta dell'ultima trovata dell'ufficio marketing e comunicazione del PD, ma parliamo invece una rinomata agenzia internazionale: YouGov. 
Cosa c'entra una società di analisi di mercato con il Ministro degli Esteri europeo? Qualche tempo fa avevamo ripercorso in una nostra ricerca la curiosa carriera di Lady Ashton, figura di primo spicco sullo scacchiere internazionale per lo spostamento di somme astronomiche a favore delle Autorità Palestinesi. Di questa donna venuta dal nulla e dalle assai dubbie abilità, una cenerentola diventata nel giro di pochi anni la donna più pagata d'Europa, ci chiedevamo "chi sarà mai il suo principe azzurro"?


Finalmente la risposta arriva da Rights Monitoring, ecco l'articolo:


La chiave per la comprensione sta in due nomi: Peter Kellner e YouGov. Il primo nome è quello del marito di Catherine Ashton e il secondo è quello della società di indagini internazionali, analisi di mercato e servizi di ricerca per i governi, della quale Peter Kellner è presidente. YouGov è diventato così importante nel settore, da arrivare a influenzare addirittura le scelte di alcuni governi, l’economia di molti paesi e anche le tendenze del mercato. Un sondaggio di YouGov è preso in grande considerazione dalla politica, che non esita a commissionare al gruppo sondaggi di ogni genere. 

Ora, accade spesso che, stranamente, le indagini condotte da YouGov per il Medio Oriente penalizzino Israele mentre sembrano particolarmente benevole verso le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita.  Solo negli ultimi mesi YouGov ha avviato una serie di indagini di mercato sul boicottaggio dei prodotti israeliani e sul gradimento degli artisti israeliani presso il pubblico inglese, per comprendere se possano o meno esibirsi nel Regno Unito. Ma gli editoriali anti-israeliani al vetriolo di Peter Kellner (e non solo su YouGov, ma anche in prestigiose pubblicazioni internazionali) non contano.

Perché questo? Perché una società internazionale che guadagna milioni di dollari l’anno e può influenzare le politiche dei vari governi è così palesemente rivolta contro Israele? Anche qui, la soluzione si trova tra le righe, in particolare quelle relative agli azionisti della società. E’ stato molto difficile ottenere informazioni sui partner YouGov perché la lista non è pubblica. Tuttavia, alcune informazioni indicative siamo in grado di darle. Così scopriamo che tra i membri di YouGov ci sono diversi emiri del Golfo, qualche sceicco arabo e che l’azienda ha un ufficio molto importante a Dubai (presso il Centro Affari Cayan) da dove dirige tutte le ricerche sul Medio Oriente. Altre sedi sono in Arabia Saudita a Dammam, Jeddah e Riyadh. La cosa in sé non sarebbe sospetta, molte aziende internazionali hanno uffici a Dubai, solo che oltre alla presenza dei capitali di emiri e sceicchi (tra i quali l’emiro del Qatar), le ricerche e le indagini sui regni di questi ultimi sono sempre molto “rilassate”, e in pochi anni hanno favorito grandi investimenti internazionali.

YouGov poi usa la sua influenza e la sua presunta credibilità per aiutare le monarchie del Golfo che, tradotto in cifre gigantesche, significa decine e decine di milioni di dollari che finiscono nelle sue casse. 

E chi è il nemico giurato delle monarchie del Golfo, a partire dall’emiro del Qatar, che finanzia il manipolo di Hamas? Israele. Chiaro che una società come YouGov, nella quale la partecipazione è costituita in parte da emiri e sceicchi, e che ottiene decine di milioni di dollari l’anno, possa suggerire una serie di domande che riescono a minare l’economia israeliana e anche a promuovere, in un sottile e intelligente gioco, il boicottaggio dei suoi prodotti. 

Bene, ora per tornare a Catherine Ashton, come può la baronessa inglese, rappresentante della politica estera europea, prendere decisioni o tenere una linea favorevole a Israele andando in questo modo contro gli interessi milionari del marito? 

Da qualsiasi parte del mondo questo si chiama conflitto di interessi.



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Titolo originale dell'articolo:
Israel: here is the reason for the anti-Israeli line of Catherine Ashton. This is a conflict of interests


giovedì 8 agosto 2013

Israele: un'isola che protegge i cristiani in Medio Oriente


Israele, unica isola che protegge i cristiani in Medio Oriente 
di Michael Oren 



La Basilica di Betlemme è sopravvissuta più di mille anni attraverso guerre e conquiste, ma il suo futuro in quel momento appariva in pericolo. Sulle sue antiche mura erano state vergate con la vernice a spruzzo le lettere arabe della parola HAMAS. Correva l'anno 1994 e la città stava per passare dal controllo israeliano a quello palestinese. 

In qualità di consigliere del governo israeliano, mi incontravo con i sacerdoti della Basilica su questioni inter-religiose. Erano sconfortati, ma anche troppo spaventati per sporgere denuncia. Gli stessi teppisti di Hamas che aveva profanato il loro santuario avrebbero potuto prendersi anche le loro vite.

Il trauma di quei sacerdoti è diventato oggi esperienza quotidiana fra i cristiani mediorientali. La loro percentuale, sulla popolazione complessiva mediorientale, è precipitata dal 20% di un secolo fa a meno del 5% oggi, e continua e decrescere. In Egitto, l'anno scorso, duecentomila cristiani copti sono fuggiti dalle loro case dopo i pestaggi e i massacri ad opera di folle di estremisti islamici. Dal 2003, 70 chiese irachene sono state bruciate e quasi mille cristiani uccisi solo a Bagdad, provocando la fuga di più di metà di quella comunità da un milione di persone. La conversione al cristianesimo è perseguita come reato capitale in Iran, il paese dove il mese scorso è stato condannato a morte il pastore evangelico Yousef Nadarkhani per apostasia (rinuncia all'islam). In Arabia Saudita le preghiere cristiane sono fuori legge anche in privato. 

Come un tempo vennero espulsi dai paesi arabi 800.000 ebrei, così oggi vengono costretti a fuggire i cristiani da terre dove hanno abitato per secoli. L'unico posto in Medio Oriente dove i cristiani non sono in pericolo, ma anzi fioriscono, è Israele. 

Dalla nascita d'Israele, nel 1948, le comunità cristiane del paese (ortodossi greci e russi, cattolici, armeni e protestanti) sono cresciute di più del 1.000%. I cristiani giocano un ruolo importante in tutti gli aspetti della vita israeliana, sono presenti in Parlamento, nel Ministero degli esteri, nella Corte Suprema. Sono esentati dal servizio militare di leva, ma migliaia di loro si arruolano come volontari prestando giuramento su un testo del Nuovo Testamento stampato in ebraico. I cristiani arabo-israeliani sono in media più benestanti e più scolarizzati della media degli ebrei israeliani, e prendono anche voti migliori nei test di immatricolazione. 

Questo non significa che i cristiani d'Israele non si imbattano a volte in manifestazioni di intolleranza. Ma a differenza del resto del Medio Oriente dove l'odio verso i cristiani è ignorato o addirittura incoraggiato, Israele è e rimane legato al solenne impegno contenuto nella sua Dichiarazione d'Indipendenza di riconoscere "completa eguaglianza a tutti i propri cittadini indipendentemente dalla loro religione". Israele garantisce libero accesso a tutti i Luoghi Santi cristiani, che rimangono sotto esclusiva tutela del clero cristiano. Quando i musulmani tentarono di erigere una moschea a ridosso della Basilica dell'Annunciazione a Nazareth, il governo israeliano intervenne per preservare la sacralità del santuario cristiano. 

In Israele si trovano molti i Luoghi Santi cristiani (come il luogo di nascita di San Giovanni Battista, Cafarnao, il Monte delle Beatitudini), ma lo stato d'Israele si estende su una parte soltanto di quella che la tradizione ebraica e cristiana considera Terra Santa. Il resto si trova nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ma in queste aree sotto controllo palestinese i cristiani patiscono le stesse condizioni dei loro correligionari nel resto del Medio Oriente. Da quando Hamas, nel 2007, ha preso il controllo della striscia di Gaza, metà della comunità cristiana che vi risiedeva è fuggita. Proibite sono le decorazioni natalizie cristiane e la pubblica esposizione del crocefisso. In una trasmissione televisiva del dicembre 2010, esponenti di Hamas incitarono i musulmani a trucidare i loro vicini cristiani. Rami Ayad, proprietario dell'unica libreria cristiana di Gaza, venne assassinato e il suo negozio ridotto in cenere. Si tratta della stessa Hamas con cui l'Autorità Palestinese che governa in Cisgiordania ha recentemente firmato un patto d'unità. Non c'è da stupirsi, quindi, se si registra un esodo di cristiani anche dalla Cisgiordania, dove un tempo erano il 15% della popolazione mentre ora non arrivano al 2%. 

C'è chi attribuisce questa fuga alla politica di Israele che negherebbe ai cristiani opportunità economiche, ne arresterebbe la crescita demografica e ne impedirebbe l'accesso ai Luoghi Santi di Gerusalemme. In realtà, la maggior parte dei cristiani di Cisgiordania vive in città come Nablus, Gerico e Ramallah che sono da sedici anni sotto il controllo dell'Autorità Palestinese: tutte città che hanno conosciuto una vistosa crescita economica e un forte aumento di popolazione… fra i musulmani. 

Israele, nonostante la vitale necessità di proteggere i suoi confini dai terroristi, in occasione delle festività consente l'accesso alle chiese di Gerusalemme anche ai cristiani provenienti sia dalla Cisgiordania, sia dalla striscia di Gaza. A Gerusalemme stessa il numero di residenti arabi, compresi i cristiani, è triplicato da quando la città è stata riunificata da Israele, nel 1967. 

Dunque deve esservi un'altra ragione per spiegare l'esodo dei cristiani dalla Cisgiordania. La risposta si trova a Betlemme. Sotto il patrocinio d'Israele (1967-1996), la popolazione cristiana della città era cresciuta del 57%. Dopo il 1996, invece, sotto l'Autorità Palestinese il loro numero è precipitato. Palestinesi armati si impossessarono di case cristiane da dove per anni i loro cecchini hanno fatto fuoco sule case dei prospicienti quartieri ebraici di Gerusalemme sud, fino a costringere Israele a costruire la barriera protettiva (che ora gli viene imputata). Palestinesi armati occuparono anche la Basilica della Natività, saccheggiandola e usandola come latrina. Oggi i cristiani, che a Betlemme erano la maggioranza, non costituiscono più di un quinto della popolazione di questa loro città santa. 

L'estinzione delle comunità cristiane in Medio Oriente costituisce un'ingiustizia di dimensioni storiche. Eppure Israele rappresenta un esempio di come questa tendenza possa essere non solo prevenuta, ma ribaltata. Se godessero del rispetto e dell'apprezzamento che ricevono nello stato ebraico, anche nei paesi musulmani i cristiani potrebbero non solo sopravvivere, ma crescere e prosperare. 



(Wall Street Journal, 9 marzo 2012 - da israele.net)
http://www.ilvangelo-israele.it/approfondimenti/Israele_unica_isola.html

Alle origini dell'imbroglio britannico

Alle origini dell'imbroglio britannico
di Marcello Cicchese




Qualche tempo fa è stato presentato al pubblico il libretto "Questa Terra è la mia Terra - Mandato per la Palestina", traduzione in italiano di un testo in inglese di Eli H. Hertz. Il libro riporta documenti noti agli storici, ma purtroppo trascurati e probabilmente ignoti anche a molti sostenitori di Israele, che evidenziano gli aspetti legali del popolo ebraico alla terra biblica chiamata in seguito Palestina. Considero quindi molto valida questa iniziativa dell'autore, dei traduttori e dell'editore italiano, e la presenza nel libro di una mia postfazione conferma questa mia valutazione. Ma avverto l'obbligo di una precisazione che avrei voluto fare subito, se il tempo messo a disposizione nelle pubbliche presentazioni del libro l'avesse consentito. 

Quando ho avuto per la prima volta tra le mani il testo già stampato, quindi quando ormai non si poteva più fare niente, mi sono accorto e ho fatto notare all'editore italiano che nella quarta pagina di copertina si trova qualcosa a dir poco sorprendente. Riporto il testo integralmente:

In Palestina per diritto e non per tacito assenso... 
Quando ci si chiede cosa si intende con lo sviluppo della Patria Nazionale Ebraica in Palestina, si può rispondere che non si tratta dell'imposizione di una nazionalità ebraica sull'insieme degli abitanti della Palestina, ma di un ulteriore sviluppo della già esistente comunità ebraica, coadiuvato dagli ebrei in altre parti del mondo, perché possa diventare un centro da cui tutto il popolo ebreo, sulle basi della religione e della razza, tragga interesse e orgoglio. Ma perché questa comunità possa avere la migliore prospettiva di libero sviluppo e perché il popolo ebraico abbia la piena opportunità di mostrare le proprie capacità, è essenziale sapere che si trova in Palestina per diritto e non per tacito assenso. 
Winston Churchill
Segretario di Stato britannico per le Colonie
giugno 1922

Mi sono chiesto, sorpreso, se si trattava di un'iniziativa particolare dell'edizione italiana, ma ho potuto verificare che lo stesso testo si trova nella seconda pagina di copertina della versione originale. Data l'importanza della cosa, sarà bene riportare integralmente anche il testo inglese:

In Palestine as of Right and Not on Sufferance ... 
When it is asked what is meant by the development of the Jewish National Home in Palestine, it may be answered that it is not the imposition of a Jewish nationality upon the inhabitants of Palestine as a whole, but the further development of the existing Jewish community, with the assistance of Jews in other parts of the world, in order that it may become a centre in which the Jewish people as a whole may take, on grounds of religion and race, an interest and a pride. But in order that this community should have the best prospect of free development and provide a full opportunity for the Jewish people to display its capacities, it is essential that it should know that it is in Palestine as of right and not on sufferance. 
Winston Churchill
British Secretary of State for the Colonies
June 1922

Chi è appena un po' familiare con l'argomento avrà riconosciuto che è una citazione tratta dal "Churchill White Paper" del 3 giugno 1922, la prima edizione del famigerato "Libro Bianco" britannico. E' davvero incomprensibile che in un libro scritto per sostenere il Mandato per la Palestina come base legale del diritto degli ebrei a ricostituire la loro nazione sulla loro terra si citi un passo tratto da un documento che rappresenta precisamente il subdolo tentativo britannico (purtroppo riuscito) di annullare questo diritto, modificandolo alla radice e inserendo fraudolentemente un altro inesistente diritto: quello degli arabi. Lo studioso Howard Grief, che ha dedicato venticinque anni di lavoro a questo tema, traendone un libro di oltre 700 pagine, già più volte citato in questo sito, dà questo netto giudizio delle parole di Churchill:

"These words were the epitome of trickery and subtlety, because they conveyed a meaning different from that of the Mandate Charter, that was almost unnoticeable." (p. 451)

"Queste parole erano l'epitome di frode e ambiguità, perché trasmettevano un significato diverso da quello della Carta del Mandato, che risultava quasi impercettibile".

Grief descrive ampiamente, non solo in riferimento a questa frase, l'atteggiamento ambiguo e fraudolento assunto dalla Gran Bretagna alla fine della prima guerra mondiale, quando il sostegno offerto dagli ebrei non sembrava più indispensabile. Ma già dall'analisi di questo testo si può riconoscere qualcosa della britannica "diplomazia" usata in questo testo, e in altri ad esso collegati, esaminando il modo in cui le parole vengono adoperate per alterarne impercettibilmente il significato o per fargliene assumere diversi, da applicare in modo variabile a seconda della convenienza. 

Il testo britannico parla di developement della Jewish National Home, mentre il testo del Mandato (Art. 2 e 4) parla di establishement della stessa. Se qualcosa deve essere "sviluppato" vuol dire che c'è già, e questa sarebbe, secondo Churchill, la comunità ebraica; ma se qualcosa deve essere "costituito" vuol dire che non c'è ancora, e questa, secondo il Mandato, è la nazione ebraica. Churchill ha fatto sparire la nazione che deve essere costituita sostituendola con la comunità che deve soltanto essere sviluppata. Questo avrebbe dovuto tranquillizzare gli arabi. Pensando a loro, dice infatti che "non si tratta dell'imposizione di una nazionalità ebraica sull'insieme degli abitanti della Palestina". Questo doveva servire a tenerli buoni, assicurando loro che in Palestina non ci sarebbe mai stata una nazione ebraica in cui avrebbero dovuto essere costretti ad entrare, ma soltanto "un ulteriore sviluppo della già esistente comunità ebraica".  

Poi però pensa agli ebrei, che potrebbero arrabbiarsi, e per tenerli buoni li adula con parole dolcissime: la nazione degli ebrei - dice in sostanza - cioè una nazione che è ebraica come è inglese la nazione degli inglesi, gli ebrei se la possono scordare, ma in compenso avranno "un centro da cui tutto il popolo ebreo, sulla base della religione e della razza, tragga interesse e orgoglio": una cosa da far gonfiare il petto. Religione e razza vanno benissimo, che bisogno c'è di una nazione? Non è forse questo, ancora oggi, il pensiero degli antisionisti aperti e democratici? Ma se la comunità ebraica resta su quella terra - dice sempre Churchill - nessuno dovrà storcere il naso perché la Gran Bretagna ha stabilito che il popolo ebraico (non la nazione) "si trova in Palestina per diritto e non per tacito assenso". 

Qui, proprio qui, nel "Churchill White Paper" del 1922 si trovano le origini dell'imbroglio britannico. Possibile che gli ebrei, a distanza di tanti anni, non se ne siano ancora accorti e vogliano continuare a farsi prendere in giro da Winston Churchill?

Howard Grief spiega chiaramente come stanno le cose:

"... usò la parola "developement" insieme con l'espressione "Jewish National Home" per descrivere l'esistente comunità in Palestina, che sarebbe diventata per gli ebrei un centro di interesse e orgoglio in tutto il mondo. Era questa comunità che doveva essere "ulteriormente sviluppata" attraverso una crescita della sua popolazione, il cui numero, comunque, sarebbe stato strettamente condizionato dalla capacità di assorbimento economico del paese. Con questo sotterfugio quasi impercettibile, il Libro Bianco cambiò sottilmente il significato di "Jewish National Home" da Stato alla fine indipendente in una semplice comunità e centro accanto alla popolazione araba del paese. In questo modo il significato del termine fu reso innocuo, perché il Libro Bianco rese la Jewish National Home non diversa dalle altre comunità ebraiche e centri in altre parti del mondo, che erano anch'esse fonte di interesse e orgoglio per tutto il popolo ebraico." (p. 451)

Si potrebbe pensare che tutto questo costituisca soltanto un accademico gioco di parole, bisogna dire invece che proprio da queste parole è venuto l'inizio di una maligna manipolazione interpretativa del Mandato per la Palestina che ha portato prima gli inglesi e poi tutto il mondo ad un'opposizione giuridica allo Stato ebraico che continua ancora oggi. Howard Grief lo afferma con chiarezza:

"E' stato il Libro Bianco del 1922 il vero punto di svolta che ha condotto al fallimento e alla rovina del Mandato, perché ha stravolto l'originale progetto britannico del 1917, reiterato nella Conferenza di Pace a Sanremo, di costituire uno Stato ebraico indipendente sotto la loro tutela." (p. 436)

L'ultima versione del Libro Bianco, nota come "MacDonald White Paper", fu emanata nel 1939 e fu in forza di essa che la Gran Bretagna respinse i profughi ebrei in fuga dall'Europa davanti alla barbarie dei nazisti. Se si leggono le "motivazioni giuridiche" di quel nefasto documento, si vede che esso fa riferimento proprio alle parole del "Churchill White Paper" del 1922, Nel 1939 Churchill ebbe una specie di tardivo rimorso e votò contro quel documento, ma ormai era troppo tardi. Alla sua ambiguità, e anche a certi gravi errori commessi dai leader ebraici, si deve la funesta deformazione dei fatti che perdura fino ad oggi.

"La circonvenzione della Dichiarazione Balfour è continuata per tutto il periodo del governo mandatario, durato dal 1o luglio 1920 fino al 14 maggio 1948. La deturpazione del Mandato originata dalla falsa interpretazione operata dal Libro Bianco di Churchill, e tutti gli altri atti di poltica che ne sono seguiti, hanno lasciato la maggior parte delle persone nell'ignoranza dell'attuale esistenza di diritti legali ebraici e del titolo di sovranità su tutta la terra di Palestina" (p.468).

Si tratta - dice sempre Grief - di una "nuvola di abissale ignoranza" che aspetta ancora di essere dissolta attraverso precisi e coraggiosi atti politici dei governanti di Israele.  

Un'inaspettata conferma dell'inganno perpetrato dalla Gran Bretagna ai danni del popolo ebraico si può trovare nelle parole di David Lloyd George, il Primo Ministro inglese con cui la Gran Bretagna aveva vinto la guerra e sotto il cui governo era stata stilata la Dichiarazione Balfour. Nel 1939 votò contro il MacDonald White Paper, e giustificò la sua posizione in una solenne dichiarazione che fece alla radio sei giorni dopo l'approvazione dell'infame documento. Le sue parole possono servire, in un certo senso, a riscattare l'onore degli inglesi. Dopo averle tradotte, abbiamo riportato la loro lettura nell'audio che si trova in calce.  
Ma si può riportarne subito la frase finale, che dovrebbe essere presa in seria considerazione da tutti coloro che con spensierata facilità parlano di pace: 


Non si può costruire la pace nel mondo 
se non sulla base della buona fede internazionale.


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Per la registrazione audio rimandiamo all'articolo originale che si trova a questo LINK e per la trascrizione alla nostra PAGINA DEDICATA.