domenica 18 ottobre 2015

Il BDS sostiene il terrorismo non i diritti

18 ottobre 2015: iniziativa molto chiara del Movimento BDS che chiede al Governo egiziano di supportare Hamas e la intifada palestinese. Nulla a che vedere con forme di boicottaggio pacifiche.


Il Cairo - conferenza stampa di Ramy Shaath, portavoce del Movimento BDS in Egitto

Se serviva una ulteriore prova che il Movimento BDS (Boycott, Divestment, and Sanctions) non è affatto un movimento pacifista che supporta la causa palestinese ma è invece un movimento profondamente antisemita che punta alla distruzione di Israele, questa prova arriva dall’Egitto dove oggi il movimento BDS organizza al Cairo una manifestazione a favore della intifada palestinese e di Hamas, non a favore dei Diritti dei palestinesi o della economia palestinese, non a favore del boicottaggio di Israele, ma proprio a favore della rivolta armata, o intifada, contro Israele.
La manifestazione che si chiuderà con una conferenza stampa e una mostra punta dritto a chiedere al Governo egiziano di sostenere la lotta armata dei palestinesi. La parola boicottaggio è sparita dal gergo del Movimento BDS, adesso si parla apertamente di lotta armata.
«Lo scopo principale della campagna è quello di sostenere la intifada palestinese» ha detto Ramy Shaath, portavoce del Movimento BDS in Egitto in un incontro con la stampa egiziana per la presentazione della manifestazione «e in seconda battuta quello di dirigere l’attenzione internamente alla questione palestinese e dare una risposta alle distorsioni presentate da alcuni media per quanto riguarda gli attuali sviluppi in Palestina». Ma Ramy Shaath è molto critico anche con il Governo egiziano che nei confronti di Hamas ha attuato politiche molto dure. «Il nostro obiettivo è quello di spingere l’Egitto e la sua gente a prendere una posizione più forte contro Israele e spingerlo a ridefinire la strategia di sicurezza nazionale dell’Egitto» ha detto Shaath «dall’assedio in corso a Gaza fino alla barriera di sicurezza costruita dall’Egitto, la politica egiziana è andata esattamente in senso opposto a quello che chiediamo noi». Quindi, riassumendo, l’obbiettivo del Movimento BDS è quello di far cambiare la politica dell’Egitto nei confronti dei terroristi di Hamas e invece di ostacolarli passare ad aiutarli. Cosa c’entra tutto questo con il boicottaggio a Israele ce lo dovrebbero spiegare i vertici del BDS.
Ramy Shaath è stato molto critico anche con i media egiziani che a suo dire hanno adottato una narrativa dei fatti che accadono in Israele e in West Bank molto simile a quella dei media israeliani. In sostanza il Movimento BDS accusa i media egiziani di raccontare la verità invece che distorcerla. A una domanda precisa da parte di un giornalista che chiedeva se il Movimento BDS sostiene o meno la intifada palestinese la risposta di Ramy Shaath è stata secca e precisa: SI.
Fino ad oggi il Movimento BDS ha sempre sostenuto la lotta armata palestinese ma, subdolamente, aveva sempre nascosto il suo sostegno alla lotta armata e al terrorismo dietro a una causa apparentemente pacifista come il boicottaggio di Israele. Ora per la prima volta esce allo scoperto.
Scritto da Shihab B.
link: http://www.rightsreporter.org/il-bds-sostiene-il-terrorismo-non-i-diritti-ecco-la-prova/

giovedì 23 aprile 2015

Lea, la caporale italiana che ha conquistato Israele

Lea, la caporale italiana che ha conquistato Israele 
Arrivata in vacanza, si è arruolata e ha ottenuto la cittadinanza

di Maurizio Molinari 

(La Stampa, 23 aprile 2015)





C’è un’italiana di 21 anni fra i soldati israeliani che vengono premiati oggi dal presidente Reuven Rivlin in una delle cerimonie più popolari dell’anniversario dell’Indipendenza. Arrivato a 67 anni dalla nascita, lo Stato ebraico si riconosce nei «militari eccellenti» scelti personalmente dal Capo dello Stato perché capaci di rappresentare «la voce di Israele» e Lea Calderoni ha saputo di essere stata prescelta solo pochi giorni fa. «Non me lo aspettavo e sono molto felice» ammette, raccontando la sua storia: nata a Roma, padre italiano e madre belga, studi al liceo scientifico e al termine una vacanza in Israele con il gruppo di volontari «Taglit». «Sono bastate poche settimane per innamorarmi di questo Paese, al termine della vacanza ho scelto di rimanere e fare l’aliya» ovvero diventare un’immigrata. 

Era il 2013 e «da nuova israeliana, come avviene per tutti, è arrivato quasi subito il momento di arruolarmi». I primi sei mesi di addestramento «sono stati difficili e al tempo stesso divertenti perché ero con ragazze tutte non israeliane e nessuno capiva bene i comandi degli ufficiali in ebraico». Ma poi l’integrazione nei ranghi ha funzionato e «mi hanno designato "madricha” della Sar’el» ovvero istruttore della particolare unità dell’esercito che raccoglie i volontari giunti da ogni Paese del mondo. «Vengono per poche settimane o alcuni mesi, vogliono aiutare l’esercito e sono impiegati in mansioni logistiche o amministrative» spiega Lea, facendo come esempi «mettere in ordine i depositi o catalogare le scorte». «È un aiuto importante per Tzahal - aggiunge, parlando delle forze armate - perché consente di richiamare meno riservisti, facendoli rimanere nella vita civile, in famiglia e al lavoro». 

Non ebrei 


Ciò che ha subito colpito Lea è che «oltre il 20 per cento dei volontari stranieri non sono ebrei», vengono «da Stati Uniti, Canada, Sudamerica, Europa, India, Singapore» e «si sentono legati ad Israele per le ragioni più diverse, vogliono aiutare». Proprio con i non ebrei Lea ha debuttato come istruttore. «Era un gruppo di finlandesi ed olandesi, tutti cristiani, dai quali ho imparato molto in altruismo». Poi sono arrivati gli americani: «Un veterano dell’Afghanistan, 35 anni e senza gambe, che raccontava con il sorriso il trauma subito in guerra dando coraggio ai soldati nei momenti più delicati» e «un 70enne guru con il quale facevo yoga la mattina mentre mi spiegava le regole della vita». 


Le motivazioni 


La capacità di entrare in sintonia con tali e tante identità diverse dall’ebraismo laico romano da cui proviene hanno valso a Lea i gradi di caporale con tanto di lodi da parte degli ufficiali che, risalendo la catena di comando di Tzahal fino ai gradi più alti, sono arrivate sul tavolo di Rivlin per la designazione finale. Fra le qualità che più gli vengono riconosciute c’è «la capacità di sorridere e interagire con tutti» anche nelle situazioni più difficili, impreviste. Quasi un riconoscimento alle origini italiane. Non a caso nel giorno della premiazione tiene a dire, con una punta di orgoglio, «sono israeliana e mi sento al tempo stesso italiana per l’educazione che ho ricevuto, per ciò che ho potuto apprendere, per ciò che sono»

lunedì 20 aprile 2015

Smontata la calunnia dell'acqua

Un altro prezioso contributo di NGO Monitor fornisce finalmente un'ampia analisi in merito alla ben nota accusa dell'acqua. Anche questa accusa, come vedremo, nasconde un preciso intento politico di biasimo e delegittimazione dello stato israeliano e, cosa ancor più grave, contribuisce a sostenere la tesi (insostenibile da ogni punto di vista, alla luce dei fatti) del cosiddetto "genocidio palestinese".
Come spesso mi è capitato di far rilevare, le bugie della propaganda anti-israeliana sono sintetiche, colpiscono l'immaginario e suscitano sentimenti accesi, qui si chiede al lettore invece di accendere il pensiero critico, di inseguire il percorso che smonta punto per punto le accuse, dedicando tempo ed attenzione all'approfondimento.
Fra le due modalità deve essere sempre e solo la prima quella vincente?
La risposta ad ognuno di noi:



Le Organizzazioni non governative (ONG) hanno incrementato la strumentalizzazione del problema dell'acqua nell'offensiva politica nei confronti di Israele. Si va dalle false accuse di «discriminazione» e di «sottrarre acqua», alle pressioni nei confronti di società internazionali affinché boicottino la compagnia israeliana idrica, la Mekerot; per giungere alla spudorata distorsioni degli accordi sottoscritti fra israeliani e palestinesi.
A seguito di queste campagne diffamatorie, la compagnia idrica olandese Vitens ha cancellato l'accordo di collaborazione pianificato con Mekerot; l'italiana Acea è stata indotta a fare altrettanto, e analoghe campagne hanno visto la luce nel Regno Unito e in Argentina.

Le questione e le dispute legate ai diritti sull'acqua non sono definite dai confini internazionali tracciati su una mappa. Una stretta collaborazione e cooperazione fra le parti è prescritta affinché i problemi siano risolti in modo creati e costruttivo, onde l'accesso ad acque pulite e sicure sia garantito in modo paritario e ottimale. Inoltre, la complessità e la centralità della questione delle acque nel conflitto arabo-israeliano sono esasperate dalla scarsità della medesima a livello locale. Infatti, in questo ambito è stato istituito un "Comitato Congiunto per l'acqua" israelo-palestinese" (JWC), allo scopo di «gestire tutte le problematiche relative all'acqua potabile e alle acque sporche nel West Bank». Il processo decisionale alla base del JWC è di tipo «consensuale, inclusa la pianificazione, le procedute e le altre problematiche». Analogamente, un principio cardine del Trattato di Pace fra Israele e Giordania del 1994 prevede che «la cooperazione nelle problematiche relative alle acque vada a beneficio di ambo le parti, e contribuirà ad alleviare la scarsità di acqua».
Sfortunatamente, malgrado l'esistenza di una cooperazione fra israeliani, palestinesi e giordani, l'acqua è diventata un'arma nelle mani delle ONG politicizzate, che usano le accuse sulla disponibilità e sui diritti idrici come parte dello strumentario di delegittimazione e di antinormalizzazione nei confronti di Israele. Le ONG presentano una descrizione distorta dei fatti, ignorando gli accordi negoziali fra Israele e palestinesi, come gli Accordi Interinale del 1995 (che seguirono gli Accordi di Oslo), allo scopo di accusare falsamente Israele di violazione del diritto internazionale; quando nella realtà la fornitura di acqua da parte di Israele è ben superiore a quella precisata negli Accordi.
Questa narrativa inoltre accusa falsamente Israele di bloccare i progetti di sviluppo idrico palestinesi, inclusi gli impianti di trattamento delle acque reflue, di creare una «crisi idrica» a Gaza, e di fornire ai palestinesi la «quantità strettamente necessaria a sopravvivere, fornendo al contempo generose quantità di acqua ai coloni». Sotto diversi punti di vista, le campagne delle ONG hanno ricalcato l'agenda politica palestinese.

Le ONG che hanno condotto questa campagna diffamatoria includono Al Haq, Al Haq, Palestinian Center for Human Rights (PCHR), BADIL, Coalition of Women for Peace/Who Profits, e EWASH (una coalizione di ONG palestinesi, organizzazioni internazionali per lo sviluppo, e agenzie ONU). ONG internazionali ed europee, come Human Rights Watch, Amnesty International eUnited Civilians for Peace (UCP: un ombrello che comprende l'olandese ICCOOxfam Novib, Pax - meglio nota come Pax Christi - e Cordaid), analogamente accusano Israele di negare un «equo accesso all'acqua», architettando accuse infondate sulla fornitura di acqua ai palestinesi.
Non di rado, queste ONG riconoscono di agire sulla base di motivazioni politiche ed ideologiche, e non per garantire un migliore accesso alle risorse idriche da parte di Israele. Ad esempi, EWASH si è opposta alla costruzione di un impianto di desalinizzazione a Gaza, che avrebbe sensibilmente migliorato l'approvvigionamento idrico, sostenendo che avrebbe «accomodato l'occupazione» e «legittimato le azioni israeliane». EWASH inoltre ha affermato, malgrado l'evidenza opposta, che «la desalinizzazione sia una «soluzione tampone», mentre è pacifico per tutti che la desalinizzazione sarebbe un rimedio definitivo per la scarsità oggettiva di fonti idriche.


LE CALUNNIE PIU' RICORRENTI

Accusa. «Mekerot approfitta del controllo israeliano di un'area sottoposta ad occupazione. Gli Accordi di Oslo impediscono ai palestinesi di sviluppare il loro settore idrico, e negano la possibilità di acquistare acqua da altri stati o da aziende internazionali» (Who Profits, 2013). «Israele impedisce la costruzione e la gestione di infrastrutture idriche nel 59% del West Bank, nella zona nota come Area C, mediante la negazione sistematica di permessi di costruire o ripristinare impianti idrici» (Al Haq, 2013).

Realtà. Il coinvolgimento di Israele nel settore idrico nel West Bank, nonché la fornitura idrica ad alcune comunità palestinesi e agli insediamenti ebraici nel West Bank, sono regolati dagli Accordi Interinali del 1995, sottoscritti da Israele e dall'OLP, e garantiti dalla comunità internazionale. Al contrario di quanto affermano alcune ONG, questo accordo non «preclude ai palestinesi di sviluppare il loro settore idrico e della depurazione». L'articolo 40 afferma che l'approvazione dei progetti idrici nel West Bank è demandata al JWC, che si esprime all'unanimità. I palestinesi sono liberi di realizzare tutti gli impianti che desiderano, a patto che vi sia la preventiva approvazione del JWC. Una volta approvato il progetto, Israele non ha alcuna autorità sulle aree B e C. I progetti idrici palestinesi nell'area C, sottoposta a controllo amministrativo e militare israeliano, richiedono il permesso dell'Israeli Ministry of Defense Civil Administration (CA). Tuttavia, nella maggior parte dei casi l'implementazione di questi progetti è demandata al PWA. In molti casi i palestinesi rinunciano ad implementare progetti già approvati e finanziati, per motivazioni politiche legate dal conflitto con Israele, e per le pressioni esercitate dalla lobby agricola palestinese.
Dal 2000 il CA ha approvato 73 richieste su 76 presentate con riferimento all'area C. Il carteggio fra CA e PWA dimostra che progetti approvati nel 2001 non sono stati ancora eseguiti nel 2009. Ulteriori 44 progetti approvati dal JWC nelle area A e B, inclusi diversi impianti per il trattamento delle acque reflue, condutture primarie e reti di distribuzione che raggiungono diverse città e villaggi, nonché cisterne idriche; non sono ancora stati implementati.
Infine Mekerot non trae alcun profitto dalla fornitura di acqua ai palestinesi. Il prezzo corrisposto è stabilito di mutuo accordo, alla luce degli Accordi Interinali di Oslo. Questo prezzo, fissato a 1,66 shekel israeliani per metro cubo (1996), è stato in seguito aggiornato a 2,85 shekel, alla luce della crescita dei costi di produzione. L'entrata complessiva per Mekerot è pari a 4,16 shekel per metro cubo; tale in realtà da comportare una perdita. Come riferimento, gli israeliani pagano 8,89 shekel per metro cubo, sussidiando così l'erogazione di acqua ai palestinesi.

Accusa. «Il blocco israeliano su Gaza e le restrizioni sulle importazioni dalla Striscia di Gaza di materiali e strumentazioni necessari per lo sviluppo e la manutenzione degli impianti, hanno indotto il raggiungimento di una crisi nella questione idrica» (EWASH, 2015). «Il blocco ha privato i bambini di Gaza della normale possibilità di bere acqua pulita» (Save the Children, 2012). «Stringenti restrizioni imposte da Israele negli ultimi anni all'accesso alla Striscia di Gaza di materiali e strumentazioni occorrenti per la riparazione degli impianti, hanno cagionato un ulteriore deterioramento della qualità dell'acqua e degli impianti di desalinizzazione a Gaza» (Amnesty, 2009).

Realtà. Gli Accordi di Oslo prevedono che la manutenzione degli impianti idrici a Gaza sia interamente demandata ai palestinesi (eccezion fatta per gli insediamenti e le basi militari), con Israele che si impegna a fornire 5 milioni di metri cubi all'anno ai palestinesi. Pertanto, dopo il disimpegno unilaterale del 2005, il governo di Hamas e l'Autorità Palestinese sono gli unici responsabili della situazione di Gaza.
Malgrado gli incessanti attacchi missilistici contro le famiglie israeliane da parte di Hamas da Gaza, Israele ha continuato a mantenere l'impegno di fornire la quantità di acqua prevista dagli Accordi di Oslo. Inoltre, malgrado le aggressioni, il personale dell'azienda dell'acqua israeliana ha garantito la riparazione e la manutenzione degli impianti a Gaza.
Un fattore cruciale nella scarsità di acqua a Gaza è la mediocre manutenzione della rete idrica, che comporta una perdita di acqua del 40% (a fronte del 3% della rete israeliana e del 33% di perdita nel West Bank). Affrontare questa problematica migliorerebbe in modo decisivo la disponibilità di acqua a Gaza, e ciò senza assistenza dall'esterno. Il trattamento delle acque reflue, il riciclo, l'irrigazione a goccia migliorerebbero immediatamente la situazione idrica nella Striscia.
Nel lungo periodo, la desalinizzazione è probabilmente l'unica soluzione per fornire una fonte affidabile e sicura di acqua a Gaza (come in Israele). La comunità internazionale si è offerta di costruire questi impianti; ma i palestinesi e le ONG si rifiutano di collaborare , sostenendo che normalizzerebbe la situazione, legittimando Israele.
Malgrado i problemi di sicurezza, Israele ha consentito che a Gaza entrino impianti idrici, completando la costruzione di una conduttura aggiuntiva, che fornire a Gaza ulteriori 5 milioni di metri cubi di acqua all'anno.

Accusa: «Mekorot sfrutta le sorgenti palestinesi, rifornisce gli insediamenti e trasfesce l'acqua palestinese attraverso la linea verde» (Who Profits, 2013); «Negli ultimi anni, i palestinesi hanno acquistato circa 50 MCM acqua all'anno. Questa acqua viene estratta dalla Mekorot dalla falda acquifera montana e i palestinesi dovrebbero essere in grado di estrarsela da soli se fossero autorizzati a scavare e mantenere i propri pozzi» (Stop the Wall, 2013).

Realtà: Water Agreement consente ai palestinesi di scavare e mantenere i propri pozzi, e la maggior parte dei pozzi in Cisgiordania sono di proprietà e gestiti da palestinesi. Mekorot scava pozzi in Cisgiordania come concordato coi palestinesi nel JWC, al fine di rifornire l'acqua per palestinesi e israeliani a prescindere dalla nazionalità. Niente di questa l'acqua viene trasportata dalla Mekorot fuori della Cisgiordania. L'acqua è fornita esclusivamente ai residenti della Cisgiordania palestinesi e israeliani. Infatti, dei circa 57 MMC (milioni di metri cubi) che Israele ha inviato ai palestinesi della West Bank nel 2013, solo circa 10 MMC provengono da pozzi della Cisgiordania. Il resto viene trasferito dall'interno di Israele nella Cisgiordania. In altre parole, Israele usa quantità significative della propria acqua per alimentare i palestinesi e non il contrario, come sostenuto dalle ONG. Le rivendicazioni delle ONG per quanto riguarda le "fonti palestinesi d'acqua" (in questo caso la falda acquifera di montagna - l'unica grande fonte di acqua in Cisgiordania) sono prive di fondamento. La falda acquifera di montagna è un acquifero comune; due terzi rientrano Israele, e il rimanente terzo sotto la Cisgiordania.

Accusa: «Il settanta per cento dell'acqua assegnata per insediamenti nella Valle del Giordano occupata proviene dai pozzi della Mekorot» (Who Profits, 2013); «I pozzi israeliani nella valle del Giordano producono circa 40 MMC all'anno ... usati quasi esclusivamente dai circa 9.000 coloni che operano gli insediamenti agricoli nella valle» (Human Rights Watch, 2010).

Realtà: ai residenti israeliani nella valle del Giordano sono dati circa 10 milioni di metri cubi all'anno in meno rispetto al volume dell'acqua dei pozzi della valle del Giordano che era stata esplicitamente approvata per il loro consumo nell'accordo di Oslo del 1995. Allo stesso tempo, circa 7 milioni di metri cubi di acqua del National Water Carrier di Israele sono annualmente forniti ai palestinesi in comunità (tra cui Gerico, Uja, Bardale, e altri) nella Valle del Giordano. Detto questo, la fornitura di acqua agli insediamenti della Valle del Giordano, così come la perforazione di pozzi in quella regione, sono tutte in conformità con l'accordo sull'acqua tra Israele e Autorità Palestinese, e sono condotte sotto l'autorità del JWC. Mekorot non sta privando i palestinesi di acqua nella Valle del Giordano o in qualsiasi altro luogo. La stragrande maggioranza dell'acqua che Mekorot fornisce alla West Bank (a palestinesi e israeliani) viene inviata da Israele (attraverso il Nazionale Water Carrier di Israele). Inoltre, i palestinesi hanno estratto meno del 50% della loro acqua di falda approvata dai pozzi della Valle del Giordano. Le estrazioni annuali dalla falda acquifera montana orientale, che forniscono sia palestinesi e israeliani nella Valle del Giordano, rimangono ben al di sotto della capacità della falda acquifera.

Accusa: «Mekorot permette una vasta produzione agricola in insediamenti illegali israeliani» (Who Profits, 2013).

RealtàCirca il 60% di tutta l'acqua utilizzata in agricoltura israeliana in Cisgiordania o è trattata dallo scarico delle acque reflue o proviene da altre fonti non potabili (ad esempio acque saline salmastre e deflussi di allagamenti), e l'acqua è fornita agli insediamenti in conformità con gli accordi internazionali vincolanti. Al contrario, i palestinesi si rifiutano di utilizzare acque reflue trattate e utilizzano solo acqua potabile per uso agricolo, pari al 50% del consumo palestinese di acqua dolce e aggravando così la crisi idrica. In molti casi, soprattutto nel nord della West Bank, gli agricoltori utilizzano l'acqua estratta da pozzi illegali e non ne pagano il consumo, ciò permette loro di sperperare acqua in modo irresponsabile. Inoltre, anche quando i finanziamenti da organismi internazionali e governi stranieri sono prontamente disponibili,la PA non ha presentato (p.5) progetti per la costruzione di impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), che potrebbero fornire fonti d'acqua aggiuntive per le esigenze agricole e ridurre l'inquinamento delle fonti d'acqua naturale, come anche il flusso delle acque reflue verso Israele.

Accusa: «Mekorot fornisce molta più acqua agli insediamenti che alle comunità palestinesi» (Who Profits, 2013).

Realtà: Questa affermazione è una distorsione palese del sistema di approvvigionamento idrico in Cisgiordania. La PWA è responsabile della fornitura di acqua alle comunità palestinesi. L'approvvigionamento idrico di Israele agli insediamenti fa parte della dotazione d'acqua di Israele come previsto dal Comitato Congiunto per l'Acqua, e non pregiudica la fornitura ai palestinesi in alcun modo. In generale, Mekorot fornisce più acqua ogni anno alla PA (57 MMC) rispetto a quella a cui sarebbe vincolato a base all'accordo sull'acqua (29 MMC, di cui 5 MMC sono forniti a Gaza). Questo in aggiunta all'acqua prodotta dagli stessi palestinesi (circa 140 MMC all'anno).

Accusa: «Al servizio dei coloni, Mekorot limita i rifornimenti idrici alle comunità palestinesi» (Who Profits, 2013); Mekorot riduce regolarmente la distribuzione / quantità di acqua fornita alle comunità palestinesi durante i caldi mesi estivi, mentre raddoppia il consumo delle colonie (EWASH, 2011).

Realtà: l'approvvigionamento idrico israeliano agli insediamenti fa parte della dotazione di Israele di acqua e non pregiudica la fornitura ai palestinesi in alcun modo. Inoltre, Israele fornisce meno acqua per i cittadini israeliani in Cisgiordania di quella stipulata negli accordi di Oslo e trasferisce la quota rimanente ai palestinesi.

Accusa: «Mekorot applica prezzi dell'acqua discriminatori, fatturando ai palestinesi tariffe più elevate rispetto a quelle israeliane» (Who Profits, 2013).

Realtà: Questa affermazione è completamente falsa. Come detto sopra, Mekorot vende acqua alla PA in perdita, la fattura 2,85 NIS per MMC (come previsto nell'accordo sull'acqua), mentre il costo di produzione per Mekorot è di 4,16 NIS per MMC.
Mekorot fa pagare ai cittadini israeliani 8,89 NIS per MMC per l'uso domestico.

Accusa: «Il 30% dell'acqua si disperde dalle tubature d'acquedotto palestinesi - perché Israele si rifiuta di permetterne il rinnovo» (Amici della Terra in Palestina / PENGON, 2014).

Realtà: La PWA perde il 33% dell'acqua nel suo sistema ogni anno (rispetto al 3% nel sistema israeliano) a causa dei furti all'interno della rete di acqua del Palestinian Water Authority e per la scarsa manutenzione. Israele non impedisce ai palestinesi di riparare il proprio sistema di tubi. Molte delle pompe dell'acqua PWA sono mantenute malamente e sono ferme per riparazioni per lunghi periodi di tempo, a causa della mancanza della capacità tecnica di riparare le pompe e della mancanza di sforzi concertati per farlo.

I furti di acqua dei palestinesi, da entrambe le reti israeliane e palestinesi, è uno dei principali motivi della perdita di acqua. Di più 250 trivellazioni illegali è ben nota l'esistenza nel nord della West Bank solamente. L'autorità israeliana dell'acqua disconnette 600 di questi collegamenti ogni anno. Le richieste israeliane di ripristinare la Supervisione Congiunta [israelo-palestinese] e le Squadre di Supervisione e Controllo (JSETs) al fine di combattere i furti d'acqua sono state respinte dai palestinesi. I verbali delle riunioni JWC mostrano che in molti casi la PWA si era impegnata a chiudere trivellazioni illegali, ma senza darne seguire. Quando il CA alla fine li demolita, la PWA protestava. Inoltre, molte delle pompe dell'acqua PWA sono mantenute male e sono chiuse per riparazioni per lunghi periodi di tempo a causa della mancanza di capacità tecnica di riparare le pompe e in alcuni casi per il rifiuto di accettare l'assistenza israeliana.

Accusa: «Il vasto pompaggio di Mekorot sta riducendo la quantità di acqua di sorgenti e pozzi palestinesi» (Who Profits, 2013); «Israele limita la quantità di acqua disponibile annualmente per i palestinesi ... mentre ha continuato a costantemente sovraestrarre l'acqua per il proprio utilizzo in misura di gran lunga superiore al consumo annuo sostenibile dellafalda acquifera» (Amnesty International, 2009); «La sovraestrazione d'acqua da parte di Israele ha provocato un calo della falda in Cisgiordania» (Human Rights Watch, 2010).

Realtà: Israele non riduce la disponibilità di acqua ai palestinesi in Cisgiordania. Le estrazioni d'acqua di Mekorot all'interno della Cisgiordania sono molto al di sotto degli importi previsti che sono attentamente impostati da esperti di acqua e approvati dal Comitato Congiunto israeliano-palestinese per l'acqua.

Riduzioni della capacità di alimentazione della falda acquifera può verificarsi come risultato di anni consecutivi di scarse precipitazioni nella regione. Come notato sopra, Israele risponde convogliando più acqua dalle risorse proprie di Israele, piuttosto che rischiare sovraestrazioni dai pozzi della Cisgiordania.

Al contrario, centinaia di pompe idriche abusive palestinesi (pp.10-11), in particolare nella parte settentrionale della falda acquifera montana in Cisgiordania, hanno abbassato il livello dell'acqua nella falda acquifera montana, minacciando di peggiorare la qualità dell'acqua. Allo stesso tempo, Mekorot ha ridotto il suo pompaggio dalla falda acquifera montana negli ultimi anni, al fine di mantenere i livelli di estrazione dell'acqua sostenibili.

Allo stesso tempo, pur avendo ricevuto i permessi nel 2000 per pozzi nella sottoutilizzata falda acquifera orientale, la PWA ha perforato meno della metà dei pozzetti approvati. Israele ha offerto anche l'Autorità palestinese di costruire un impianto di desalinizzazione in terra israeliana, vicino ad Hadera, al fine di soddisfare i loro bisogni; l'Autorità palestinese ha rifiutato questa offerta.

Inoltre, la PWA non ha installato i contatori dell'acqua in circa il 50% delle case palestinesi e sulla maggior parte delle pompe agricole e quindi non è in grado di monitorarne l'utilizzo e riscuotere il pagamento da parte dei clienti.

Accusa: «La politica e le operazioni di Mekorot ignorano la Linea Verde» (Who Profits, 2013).

Realtà: Tutte le operazioni di Mekorot in Cisgiordania sono svolte nel quadro dell'accordo del 1995 e in base alle decisioni consensuali del JWC. Mekorot fornisce acqua a entrambe le comunità palestinesi e israeliane in Cisgiordania, e fornisce l'acqua al di sopra e al di là dell'importo pattuito con l'accordo di Oslo, un accordo riconosciuto a livello internazionale. Al contrario, la PWA ignora la responsabilità di fornire soluzioni idriche per i cittadini palestinesi, viola l'accordo sull'acqua in molti modi, consente la maggior parte delle acque reflue e inquinanti dei palestinesi di fluire in Israele (palesemente ignorando la linea verde), e scarica la colpa delle proprio carenze sulle spalle di Israele.



CONCLUSIONE

Data l'importanza dell'acqua per tutti i popoli della regione, è sconcertante che le ONG lo utilizzano come strumento per promuovere agende politiche anti-israeliane.

I problemi relativi all'acqua sono stati affrontati in dettaglio nell'accordo del 1995 acqua, sotto l'egida della comunità internazionale. Con riserva di ulteriori negoziati tra le parti, le disposizioni e i meccanismi concordati quindi sono pienamente vincolanti e devono essere rispettati. Le ONG che affermano di promuovere i diritti umani dovrebbero attenersi ai fatti rapidamente disponibili e facilmente accessibili e invitare l'Autorità palestinese e il governo di Hamas a Gaza ad accettare la proprie responsabilità in questo campo nei confronti dei cittadini palestinesi.

La vasta campagna internazionale su questo tema, che diffonde informazioni false e distorte, è parte integrante del tentativo di demonizzare e delegittimare Israele. Le ONG alla ribalta in questi sforzi non promuovono la pace e non aiutano i palestinesi a migliorare la loro accesso ad acque sane e pulite. 


Articolo originale:
Myths vs. Facts: NGOs and the Destructive Water Campaign Against Israel.

pubblicato in italiano da Il Borghesino:  

Acquedotto Pugliese: non dà da bere, ma da mangiare (e fa politica)

Un recentissimo articolo tratto dall'ottimo blog "Il Borghesino" apre uno spiraglio davvero interessante sulle connessioni - purtroppo mai indagate finora dalla magistratura e mai sottoposte all'opinione pubblica - fra enti locali o partecipate in odor di corruttela e progetti "umanitari" da realizzarsi - guardacaso - proprio in terra palestinese. Questa volta si tratta della società Acquedotto Pugliese:


Acquedotto Pugliese: non dà da bere, ma da mangiare
(e fa politica)

martedì 24 marzo 2015




Apprendiamo dalle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno che l'Acquedotto Pugliese (AQP), società idrica partecipata al 100% dalla Regione Puglia, è in procinto di costruire un acquedotto di 7 chilometri in località Beit Ula, per «l’approvvigionamento idrico di 4.200 abitanti, attualmente sprovvisti di rete idrica». Nobile proposito, se non fosse che la cittadina in questione non si trova in Puglia nè tantomeno in Italia; bensì in provincia di Hebron, nel West Bank, territori sottoposti all'amministrazione dell'Autorità Palestinese del corrotto Abu Mazen.
Non è ben chiaro se questo progetto sia finanziato direttamente dall'AQP, o dall'ente controllante; nè l'entità dell'investimento previsto. Sfumature, formalismi, recriminazioni ragioneristiche, dal momento che la cassa esangue è rimpinguata in ogni caso dai contribuenti pugliesi. Ciò non ha rimosso il sorriso radioso di Nicola Costantino, amministratore unico della società idrica, volato in "Palestina", come riferisce l'estensore dell'articolo, assieme all'immancabile nutrita delegazione di politici.
Un viaggio che non ha portato fortuna; perché pochi giorni dopo Nicola Costantino è stato raggiunto da un avviso di garanzia: secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano, i Carabinieri hanno sequestrato i fanghi prodotti dall'AQP e venduti come concime ad una cinquantina di aziende agricole. Sfortunatamente, però, i fanghi in questione contenevano metalli pesanti come ferro, mercurio e zinco, e idrocarburi altamente tossici per la salute. L'Acquedotto Pugliese avrebbe dovuto smaltire i rifiuti nocivi, seguendo le procedure previste dalla legge. Ma ciò comporta oneri non trascurabili: una incombenza insostenbile, per una società dall'agenda politica così brillantemente impegnata: costruire acquedotti costa non poco, a duemila chilometri di distanza dalla propria sede istituzionale.
Pazienza per i pugliesi: si abbevereranno e alimenteranno con prodotti della terra inquinati, ma "aiuteranno i palestinesi".
Pazienza se i palestinesi non hanno affatto bisogno di pomposi investimenti idrici, come ampiamente documentato in questi giorni dal corposo e dettagliato dossier di NGO Monitordi cui abbiamo dato conto.

Sede della Società Acquedotto Pugliese

Il Borghesino
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martedì 27 gennaio 2015

Quali origini per il "popolo palestinese"?

Riproponiamo un ottimo articolo di Y. K. Cherson, tradotto in italiano da Il Borghesino, in cui si percorrono le tappe della storia di Israele, alla ricerca di attestazioni storiche dell'esistenza del popolo palestinese a fianco di quello ebraico. 





Palestinesi: un popolo inventato

di Y.K. Cherson
9 gennaio 2014
titolo originale:
 
PALESTINIANS: THE INVENTED PEOPLE

«La storia del popolo palestinese risale fino al...». A questo punto gli storici arabi non trovano l'accordo: alcuni sostengono che il "popolo palestinese" vanta 4.000 anni di storia; altri si spingono fino a 10.000 anni, c'è chi parla di 30.000 anni e non manca chi spara addirittura 100.000 anni di storia: il che renderebbe l'uomo di Neanderthals piuttosto giovanile a confronto dell'"uomo palestinese". Ma sebbene gli storici arabi non concordino sulla data di nascita del palestinese, su un aspetto sono unanimi: è comparso sulla Terra molto prima degli ebrei, dei romani o dei greci. 
C'è solo un problema: di tutta questa millenaria storia, non si trova alcuna traccia.

Nel 721 a.C., gli assiri conquistarono il Regno di Israele. È un fatto storico accertato che nessuno contesta. Magari il glorioso "popolo palestinese" avrà combattuto eroicamente contro l'aggressore, cagionando pesanti perdite? Non proprio: non c'è una sola testimonianza che sia una, che fa menzione di questo popolo. Può essere che centinaia di migliaia di "palestinesi" abbiano combattuto eroicamente contro gli assiri, senza che questi se ne siano accorti? Allo stesso tempo, però, i resoconti storici riportano diffusamente le battaglie contro gli israeliani. Insomma gli assiri notarono benissimo gli israeliani, ma non scorsero nemmeno un "palestinese".
Perché gli assiri non si imbatterono in nemmeno un palestinese? Forse perché il re Sargon II era sionista. 

E che dire dei babilonesi? lo stesso mistero ci attende quando iniziamo a leggere i resoconti babilonesi circa la conquista del Regno di Giudea, avvenuta fra il 597 e il 582 a.C. Gli ebrei si scorgono in ogni pagina. E i palestinesi? niente, nemmeno una citazione isolata. Neanche i babilonesi si sono imbattuti in essi.

Ma di sicuro i persiani li hanno scovati, lasciandoci una dettagliata descrizione di questo meraviglioso popolo, della sua sterminata cultura, delle sue abitudini, della lingua parlata. Macché: anche loro ci hanno deluso. I resoconti storici ci parlano degli ebrei, di come Ciro concesse loro il diritto di tornare a Gerusalemme, dei satrapi persiani che comandarono in Giudea e Israele. Ma dei palestinesi, ancora una volta nessuna parola.

Ma ciò che rende spassosa questa ricerca è la circostanza che lo stesso Alessandro il Grande percorse tutta la costa della Palestina da Tiro a Gaza nel 332, senza imbattersi mai in nemmeno un palestinese: soltanto ebrei. Dove diavolo si nascondevano i palestinesi?
Certo: stiamo parlando di assiri, babilonesi, persiani; gente vissuta tanto tempo fa. Ma che dire dei romani, che pur erano così zelanti nella conservazione della memoria? la storia non cambia.

I romani spiegano con dovizia di particolari come assediarono Gerusalemme, informandoci scrupolosamente di come gli ebrei tentarono disperatamente di respingerne l'assalto. Descrivono le rivolte degli ebrei e come esse furono soffocate, indugiando in dettagli su come gli ebrei si difesero a Masada, su come i romani divisero la Giudea, ribattezzandola in "Palestina", su come rinominarono Gerusalemme "Aelia Capitolina". Ci raccontano un sacco di cose; ma non menzionano nemmeno una volta i "palestinesi". E peraltro, sebbene ribattezzarono quelle terre "Palestina", continuarono a chiamare i suoi abitanti come da migliaia di anni si soleva fare: ebrei. 
La Palestina divenne il nome ufficiale di quella terra, ma i suoi abitanti continuarono a chiamarsi "ebrei".

Un momento! è dov'era il "popolo palestinese" quando arrivarono gli arabi? è una domanda da un milione di dollari. Gli arabi moderni si autodefiniscono "palestinesi"; come si definivano gli arabi del VII secolo, quelli che conquistarono la Palestina? Qualcuno per caso è a conoscenza di un documento, che sia uno, scritto dai dominanti arabi in Palestina, che esprimesse un concetto anche vagamente vicino a quello di "palestinesi"? niente da fare, nessuna menzione...

La situazione diventa davvero divertente. Gli arabi oggi si scaldano quando narrano di loro avi che hanno vissuto in Palestina da "tempi immemorabili", ma i loro avi non hanno alcuna idea di questo glorioso e antico passato. Ma dopotutto, la dominazione araba in Palestina non è durata così tanto. 
Soltanto 300 anni dopo la loro conquista giunsero i turchi - prima di mamelucchi, poi gli ottomani - a spodestarli. Essi comandarono in Palestina per sei secoli: forse questa volta a sufficienza per rinvenire un gruppo etnico folto e glorioso come quello del "popolo palestinese". Questa volta avremo migliore fortuna?
Macché! le statistiche ufficiali dei turchi censirono ebrei, arabi, circassi in Palestina, e fornirono dati dettagliati sui musulmani, sui cristiani e sugli ebrei; ma neanche una volta menzionarono alcun "popolo palestinese".

Dunque assiri, babilonesi, greci, romani, persiani e arabi; mai hanno menzionato, neppure di sfuggita, il "popolo palestinese". I turchi, in 600 anni di occupazione della Palestina, non hanno mai trovato traccia di palestinesi. 

E dove mai si nascondeva questo antico e incredibilmente eroico popolo dopo il 1917? le diverse commissioni della Lega delle Nazioni (progenitrice delle Nazioni Unite) non ne hanno mai trovato traccia; tutti i documenti della Lega delle Nazioni di quel periodo citano soltanto ebrei e arabi, ma mai una volta si cita il palestinese come popolo. 
Magari a parlare di "popolo palestinese" all'epoca erano i politici occidentali? neanche a dirlo: i delegati di undici diverse nazioni visitarono quei luoghi e trovarono una realtà attesa. Vale a dire, due gruppi in conflitto, arabi ed ebrei, le cui aspirazioni nazionali non potevano essere conciliate. «Palestinesi? e chi sono?...».

Ma forse i politici arabi... Macché. I politici degli stati arabi erano netti su questo argomento: «consideriamo la Palestina parte della Siria araba, dalla quale non si è mai distaccato in alcun momento. Siamo connessi ad essa da legami nazionali, religiosi, linguistici, naturali, economici e geografici» (I Congresso dell'Associazione cristiano-musulmana, febbraio 1919).

Il rappresentante dell'Alto Comitato arabo presso le Nazioni Unite sottopose all'Assemblea Generale dell'ONU a maggio 1947 la seguente affermazione: «la Palestina è parte della provincia siriana», e «politicamente, gli arabi di Palestina non sono indipendenti, nel senso di formare un'entità politica separata».

Nel 1937 un leader arabo locale, Auni Bey Abdul-Hadi, riferì alla Commissione Peel, che in ultima analisi suggerì la partizione della Palestina: «non esiste alcuno stato chiamato Palestina! la "Palestina" è un termine inventato dai sionisti! non esiste alcuna Palestina nella Bibbia. Per secoli la nostra patria è stata la Siria»
E ancora:
«Palestina e Transgiordania sono una cosa sola» (Re Abdullah, riunione della Lega Araba al Cairo, 12 aprile 1948). Per cui gli arabi negli anni Quaranta non hanno mai fatto menzione dei cosiddetti "palestinesi"; ne' tantomeno scorsero mai una "Palestina". Ma da questo punto di vista c'è da dire perlomeno che fossero in buona compagnia...

Chissà che mai abbiano trovato questo misterioso "popolo palestinese" più avanti?... niente da fare. Il presidente siriano Hafez Assad, nel rivolgersi al leader dell'OLP - nonché "padre del popolo palestinese" - Yasser Arafat, così spiegava: «Non rappresenti la Palestina più di quanto facciamo noi. Non dimenticare questo punto: non esiste alcun popolo palestinese, non c'è nessuna entità palestinese; c'è solo la Siria. Siete parte integrante del popolo siriano, e la Palestina è parte della Siria. Siamo noi i veri rappresentanti del popolo palestinese». Naturalmente, il leader dei palestinesi respinse sdegnatamente al mittente queste insinuazioni...?
No, purtroppo stavamo scherzando: non lo fece.

Lo stesso Yasser Arafat specificò meglio il suo pensiero con una dichiarazione che ne confermava il pensiero nel 1993: «La questione dei confini non ci interessa. Da una prospettiva araba, non dobbiamo parlare di confini. La Palestina non è che una goccia nell'oceano. La nostra nazione è la Nazione Araba, che si allunga dall'Oceano Atlantico al Mar Rosso e oltre. L'OLP combatte Israele in nome del panarabismo. Quella che si chiama "Giordania in realtà non è altro che la Palestina».

Non molto tempo fa Azmi Bishara, ex deputato della Knesset espulso da Israele per aver passato informazioni riservate ad Hezbollah durante la II Guerra del Libano, e che si può definire tutt'altro che amichevole nei confronti di Israele; affermò la stessa convinzione: «il popolo palestinese non esiste»

«La verità è che la Giordania è Palestina, e la Palestina è la Giordania», sentenziò Re Hussein di Giordania nel 1981. Abdul Hamid Sharif, primo ministro della Giordania, dichiarò l'anno precedente: «palestinesi e giordani non hanno differenti nazionalità: entrambi hanno lo stesso passaporto, sono arabi e vantano la stessa cultura giordana».



Ma gli arabi, che ci assicurano di vivere in Palestina da tempi immemorabili, non consentono ovviamente a siriani e giordani di privarli del passato di cui vanno fieri. Credete? in realtà lo permettono eccome. E hanno seri motivi per farlo.
Lo sapevate che fino al 1950, il Jerusalem Post si chiamava Palestine Post?
che il giornale dell'Organizzazione Sionista negli Stati Uniti era il New Palestine?
che il nome originario della Bank Leumi era Anglo-Palestine Bank?
che il vecchio nome della compagnia elettrica israeliana era Palestine Electric Company?
che una volta esistevano la Palestine Foundation Fund e la Filarmonica di Palestina?
ed erano tutte organizzazioni ebraiche, fondate e gestite da ebrei!
In America, l'inno dei giovani sionisti recitava "Palestina, oh mia Palestina".

Fino alla fine degli anni Sessanta, chiamare un arabo "palestinese" corrispondeva a muovergli offesa, perché in questo modo erano etichettati in tutto il mondo gli ebrei. Tutti sapevano che Palestina era un modo alternativo per definire Israele e la Giudea, così come ad esempio Kemet era l'antico nome d'Egitto. Gli arabi che vivevano in Palestina si identificavano come arabi, e provavano irritazione se qualcuno li appellava come "palestinesi": «non siamo ebrei, siamo arabi», erano soliti replicare.

Libretto della stagione concertistica 1936/37
con la firma di Arturo Toscanini e 
Bronislaw Huberman 

In conclusione.
C'è uno stato in Estremo Oriente. Chi vi abita - e ci abitano da diversi decenni - definisce questo stato enfaticamente "la Terra del Sol Levante". Ad un certo punto viaggiatori occidentali e geografi battezzarono questo stato con un altro nome. Perché? forse perché non avevano inclinazione poetica, o forse lo visitarono al tramonto, o forse non erano in grado di pronunciare il nome in lingua originale. 
Ma la gente che qui abita ha forse ribattezzato il proprio stato con altro nome perché altri hanno deciso così? certo che no: sono la stessa gente e continuano a chiamare il loro paese "La Terra del Sol Levante"; anche se in Occidente è abituale chiamarlo Giappone.


E c'è un Paese in Medio Oriente. La gente che vi abita da secoli lo chiama "Eretz Israel", la Terra di Israele. Poi ad un certo punto sono giunti gli occidentali e le hanno dato un altro nome. Il popolo che lì ha sempre abitato è cambiato? no di certo! si tratta della stessa gente, che continuerà a chiamare quella terra "La Terra di Israele"; anche se in Occidente si continua impropriamente a parlare di Palestina.


Toscanini, fervente antifascista, dirige il primo concerto della "Palestine Orchestra"
Tel Aviv, 26/12/1936


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N.B. Questo ottimo articolo offre molti spunti di riflessione, ma la storia è molto più ricca di testimonianze di quanto si possa sospettare. A chi desiderasse approfondire con ulteriori letture dal nostro blog consigliamo ad esempio: